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Vecchi e nuovi errori

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L’approccio all’errore umano è stato recentemente rivisto alla luce del nuovo paradigma fornito dalla “resilienza di sistema” (Resilience Engineering), poiché ciò che veniva classificato come errore umano, non era altro che uno scostamento dalle procedure e dai protocolli previsti.

Come altre volte abbiamo detto, la nuova impostazione non considera la deviazione come errore, ma la ritiene un aggiustamento locale che viene impiegato normalmente per ottenere un aumento di prestazione, e non come violazione fine a se stessa.

Le ricerche di alcuni studiosi evidenziano come, nella stragrande maggioranza dei casi, i piloti non seguano pedissequamente le procedure proprio per colmare la differenza esistente tra le norme, concepite in astratto, e il reale scenario operativo che è impossibile da codificare a priori. Gli studiosi in questione parlano a proposito di short cut, cioè di scorciatoie che servono a raggiungere il risultato voluto, con minor tempo, minor energia e soprattutto più sicurezza. (Wright, Peacock, Fields, 2004).

Se pur è vero che nelle statistiche sugli incidenti aerei l’aspetto dell’errore umano è ai primi posti, bisogna fare delle considerazioni supplementari per contestualizzare come questo dato emerge dalle investigazioni.

Alcuni studiosi (Bracco, 2006) parlano di “illusione sull’errore umano”, che consiste principalmente nell’identificare la causa dell’incidente nell’operatore finale, adottando un metodo di indagine che contiene implicitamente una fallacia. In altre parole, poiché è evidente che qualcosa non è andato come avrebbe dovuto (altrimenti non ci sarebbe stato l’incidente), ogni deviazione dalla norma o qualsiasi comportamento difforme da quanto previsto viene interpretata come causa scatenante dell’evento. L’assunzione di fondo è che il lavoro prescritto coincida sempre con il lavoro effettuato, individuando come causa scatenante dell’incidente il mancato accordo tra ciò che previsto e il reale svolgimento del compito.

In realtà, riguardo al problema dell'occorrenza degli errori, essi ricorrono con una frequenza talmente alta, da non essere minimamente paragonabile al numero totale degli incidenti. Dunque, il nesso causa-effetto tra insorgenza di errori e incidenti deve essere radicalmente rivisto alla luce di un nuovo paradigma investigativo.

Come già accennato, si è visto che nelle operazioni normali i piloti, ed in generale gli operatori di front line (in prima linea) di solito adottano degli short cut che tendono ad ottimizzare la prestazione, riducendo il carico di lavoro. Tutto ciò viene effettuato sulla base della professionalità che permette di valutare caso per caso la necessità di modificare, omettere, integrare le norme di lavoro codificate.

Ne risulta un modus operandi molto simile ad un iceberg di cui è visibile una parte minima. La parte sommersa di questo iceberg di conoscenze non viene solitamente a galla per il semplice fatto che di solito non succede nulla. La tecnologia, fornendo molte ridondanze sistemiche, involontariamente occulta una serie di falle conoscitive degli operatori, sia inducendo alla complacency sul buon funzionamento degli automatismi, sia surrogando in estensione una serie di operazioni sempre più vasta.

Sydney Dekker, uno studioso di human factor molto acuto, parla di ri-definizione (anzi, di re-invenzione) dell’errore umano perché i modelli sui quali sono state costruite le analisi relative agli errori contengono una sorta di vizio di metodo. Infatti, l’errore si può vedere o come causa dell’incidente, oppure come effetto di una causa che si trova altrove (ad esempio, in altri livelli organizzativi).

In base alla vecchia visione, gli errori umani causano la maggior parte degli incidenti: i sistemi, di per sé, sono sicuri ed è l’uomo che introduce la variabile che può portare il sistema a collassare. In pratica, la tecnologia è sicura e l’uomo è la minaccia.

In questo tipo di interpretazione, per migliorare la sicurezza, erigendo delle barriere contro la minaccia rappresentata dall’uomo, bisogna ricorrere a migliori selezioni, implementare nuove procedure, impiegare sempre più l’automazione, sviluppare programmi di addestramento e attenersi scrupolosamente alla disciplina di utilizzo dei sistemi.

In base alla nuova visione, gli errori sono sintomi di falle che si trovano a differenti livelli dell’organizzazione: i sistemi non sono sicuri di per sé; essi hanno bisogno delle persone che attualizzano i programmi stabiliti, aggiornando l’azione in base alla variabilità operativa. Quindi, è l’essere umano che crea la sicurezza.

Secondo questa teoria, esiste una relazione stretta e costante tra l’uomo e gli strumenti, tra i compiti e l’ambiente operativo. I progressi della sicurezza derivano dalla migliore comprensione di questi elementi e nel disegno di sistemi che prendano in considerazione le caratteristiche umane.

antonio.chialastri(at)manualedivolo.it

(20 aprile 2012)

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