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Punto di non ritorno - IV

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IV - Bush Pilot (da Wikipedia): pilota che svolge operazioni di volo in regioni remote ed inospitali. Le attività comprendono operazioni su terreni impervi ove spesso non ci sono strisce di atterraggio predisposte e che richiedono aeromobili con adeguati sistemi di atterraggio (ruote larghe, scarponi o sci)


Ne ho conosciuti alcuni nella mia esperienza, i primi nel bush per eccellenza, quello africano: due ragazzi sudafricani della mia stessa età (ai tempi…) ai comandi di un BN2 Islander cosi mal ridotto da far perdere il sonno al nostro capo linea di allora, che passò più di una notte a lavorarci sopra nelle ore libere dal servizio e rubate al sonno, perché la sua coscienza non se la sentiva proprio di farli andare in giro con un aereo in quello stato.

Altri, ben più anziani nel corpo e nella mente, reduci da un inferno afghano (che avremmo dopo qualche anno imparato a conoscere in prima persona), dalla pelle dura e rugosa come quella di un bufalo. Dallo sguardo impenetrabile, perennemente in volo oltre i limiti del tempo meteorologico e fisico, pronti poi a crollare in un lurido motel alla periferia di una bidonville appiccicosa fino alla prossima missione, sempre con un carico ufficiale ed uno… ufficioso che sarebbe servito ad assicurare una pensione che lo Stato non gli avrebbe mai riconosciuto (ed anche questo lo avremmo cominciato ad imparare da li a poco…).

08pnr4Poi, dopo aver viaggiato fino alla fine del mondo, ho conosciuto gli antartici, i piloti della solitudine estrema, quelli che si possono a ben ragione definire “quelli dell’altro mondo”.

Il loro decano, Bob, Kiwi purosangue, 40 anni di volo estremo con l’elicottero, mediano di mischia e poeta del rugby, quello vero, quello che quando ne senti parlare ti scordi di essere alla fine del mondo e sogni di leggende con la palla ovale. Pilota assoluto, si dice di lui che potrebbe portare la posta ai pinguini, poiché conosce ogni indirizzo dell’Antartide, e nonostante ci voli da sempre lo vedi emozionarsi come fosse la prima volta ogni volta che decolla.

Ricky, sudafricano degli altopiani di Durban. Grande e grosso come un TIR, occhi blu come il mare di Grecia. Ha portato il “suo” C130 fino al posto più lontano al mondo, e non vede l’ora di riportarcelo ogni anno, ogni estate. Poi racconta di Africa, di Indonesia, di Sud America e non racconta quello che ognuno vorrebbe sentirsi raccontare.

David e Michael, canadese come una foglia di acero il primo, calabro-canadese il secondo. Per la prima volta in Antartide con il loro Twin Otter, senza autopilota, senza mai mostrare fatica. Mille volte a caricare l’aereo di bidoni di carburante, tende ed equipaggiamenti, scaricarlo dopo 6 ore di volo e ricominciare per altre 6 ore come fossero sulla spiaggia di Fregene a giocare a racchettoni. Smaniare se alle 08:00 del mattino non hai ancora un task per loro. Parlare del loro Paese come fosse l’Antartide, a tratti un poco più verde, ma in fondo cambia poco, e poi della voglia di farsi al più presto una famiglia, di avere dei figli, a venti anni ci starebbe anche questo, ma solo in questo posto. Meno di 50 anni in due, un entusiasmo ed una voglia di fare commovente.

Come non parlare di Jim, 56 anni, partorito su un aereo, madre e padre bush pilots, non ricorda di aver mai cominciato a volare, come noi non ricordiamo di aver cominciato a camminare. Vola il suo Basler, più anziano di lui, come un pianista innamorato tocca i tasti del suo pianoforte. Non atterra mai, al più mette il velivolo in stand by in attesa della prosecuzione di un volo che dura da tutta la vita per tutta la vita. Vive per questo, per il suo aereo, per il suo equipaggio. In grado di atterrare ove nessun altro si sognerebbe di fare un basso passaggio. Un altro che potrebbe consegnare merce ai pinguini, due giorni a terra e diventa intrattabile, poi una notte (di quelle che hanno il sole alto nel cielo) esce a -30˚ in pigiama, giaccone di renna e berrettino di lana per difendere a mani nude il “suo” aereo dalla violenza bestiale del vento catabatico.

Un ultimo pensiero per Robert Heath, ed il suo equipaggio, il primo ufficiale Michael Denton, ed il flight engineer Perry Anderson, i cui corpi giacciono dal 23 gennaio di quest’anno su di una parete quasi verticale di Mt Elizabeth sulla catena trans-antartica, caduti durante un volo di trasferimento da Amundsen-Scott base (lat. -90˚) alla Mario Zucchelli Station. Non ho avuto la fortuna di conoscerli personalmente ma Robert, un veterano di decine di spedizioni con la comunità scientifica italiana, era una vera e propria leggenda.

Moltissimi gli episodi raccontati, uno su tutti: alla domanda rivoltagli da un ricercatore se fosse stato possibile con il suo Twin Otter, atterrare sul ponte della nave Italica, dopo averci pensato su per un attimo rispose : “Sì, …una volta sola però!”

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(31 luglio 2013)

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