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Quel ghiaccio sull'ala

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Una giornata fredda e relativamente umida, una discesa un po' "allegra", pochi centimetri quadrati di ghiaccio sull'ala di un A-319, l'onnipresente tuttofonino per scattare una foto, un passeggero particolarmente ansioso che si rivolge alla magistratura, e i giochi sono fatti.


Il giudice deve dar corso alla denuncia, sente il comandante del volo, e apre un fascicolo sul fatto. Che, vale la pena di ricordarlo, si è svolto nel febbraio del 2013 a bordo di un A-319 in rotta da Torino a Napoli. Manco a farlo apposta, visto che c'è di mezzo Torino, il giudice è il famoso Guariniello, e questo da solo basta ad aumentare la visibilità della notizia che atterra, è il caso di dirlo, nelle prime pagine nazionali.

La quale notizia, a livello strettamente tecnico, meriterebbe a malapena un trafiletto, perché ad un addetto ai lavori basta un'occhiata alla famosa foto per derubricare l'intero evento al rango di "sciocchezza".

Anch'io, come tanti, quella foto l'ho guardata, e la prima risposta che mi verrebbe di dare, così a colpo d'occhio, notando che l'aereo è a quota relativamente bassa, che sotto l'ala "incriminata" si intravede un pezzo di costa, e che l'aria non è esattamente limpida, è che si tratti di un fenomeno, avvenuto nelle fasi finali del volo, in tutto e per tutto simile a quello che si verifica quando si tira fuori una lattina di birra ghiacciata dal frigo e sulla sua superficie si deposita un velo di condensa più o meno consistente a seconda del differenziale di temperatura tra interno ed esterno della lattina e dell'umidità dell'ambiente.

Una cosa simile si verifica anche all'interno dell'ala di un aereo, dove si trovano i serbatoi. Se il volo è stato abbastanza lungo (e Torino-Napoli sfiora le due ore) e la temperatura in quota particolarmente bassa (cosa più che plausibile il 13 di febbraio), allora la temperatura del carburante contenuto nelle ali si abbassa in modo considerevole... ipoteticamente, ma nemmeno poi tanto, il cherosene potrebbe arrivare anche a congelarsi, ma questo è tutto un altro discorso.

Se a questo punto si effettua una discesa un po' più rapida del normale, magari in aria abbastanza umida, è facile che il differenziale di temperatura tra interno ed esterno dei serbatoi provochi la formazione di un velo di condensa sulla superficie esterna delle ali che, con carburante particolarmente freddo e temperatura esterna relativamente bassa, può tranquillamente trasformarsi in uno strato di brina. In linea di massima, il fenomeno si manifesta in modo più visibile nella parte inferiore dell'ala, dove a volte arriva a persistere anche per diverse decine di minuti dopo l'atterraggio.

Arrivati a questo punto, non sarà sfuggito all'attento lettore la scelta dell'avverbio "tranquillamente" da me operata quando ho parlato formazione di uno strato di brina. Tranquillamente, sì, perché il cosiddetto ghiaccio "brinoso", dei tre tipi di ghiaccio che si possono formare sulle superfici esterne di un aereo, è considerato il meno pericoloso, tanto che a volte capita di ridecollare prima che quello formatosi durante la discesa con le modalità precedentemente descritte sia completamente sciolto.

Infatti questo tipo di ghiaccio ha uno spessore (e nella famosa foto si vede chiaramente) che non supera il millimetro e non altera in maniera considerevole il profilo dell'ala, lasciandone intatta la capacità di produrre portanza e di far quindi volare l'aereo. Diverso il discorso per gli altri due tipi di ghiaccio (spugnoso e vetrone) che viceversa interferiscono in modo drastico con la circolazione dell'aria intorno all'ala, facendone decadere l'efficienza.

Il nostro ghiaccio brinoso diventa davvero pericoloso solo in una occasione: apprestandosi al decollo in una giornata di maltempo, quando esistano le possibilità di accumulare sulle ali anche dello "spugnoso" o peggio ancora del "vetrone". In quel caso l'eventuale "brinoso" non rimosso favorirebbe l'accumulo di altro ghiaccio in una fase in cui i sistemi antighiaccio di bordo non sono ancora pienamente efficaci. Ecco perché, in questi casi, si ricorre sempre a lunghe e minuziose operazioni di sghiacciamento preliminare: è vero, si accumulano ritardi biblici, ma come ognun sa la sicurezza viene prima di tutto.

E nel caso del nostro volo da Torino a Napoli la sicurezza non è mai stata in ballo.

Stupisce caso mai notare come, a quindici mesi dallo scatto, ancora nessuno, e il giudice per primo, abbia pensato a chiamare in causa chi potrebbe senz'altro dare un parere tecnico autorevole. In Italia, come nel resto del mondo aeronauticamente avanzato, esiste infatti una Agenzia Nazionale per la Sicurezza del Volo che ha tra i suoi compiti istituzionali proprio quello di svolgere indagini tecnico-formali.

Ma in Italia, e qui una differenza con il resto del mondo civile c'è, pare che questo sia considerato solo una inutile interferenza, e la magistratura non è usa avvalersi dell'appoggio di ANSV, preferendo al contrario nominare propri esperti e periti, non si sa quanto tecnicamente competenti, visto certe conclusioni a dir poco strabilianti.

Un caso per tutti: vi ricordate l'incidente WindJet di Punta Raisi? Sono passati oltre tre anni e mezzo, il processo penale è ancora in corso, e ANSV non è stata ancora messa in grado di concludere una sua inchiesta che, secondo le normative internazionali, sarebbe atto dovuto nel termine di 18 mesi.

Nel resto del mondo aeronauticamente evoluto l'inchiesta tecnico-formale di ANSV sarebbe venuta prima (anche perché il suo scopo primario è quello di trarre da incidenti e inconvenienti le lezioni che ne eviteranno il ripetersi) ed i suoi risultati avrebbero costituito la principale delle perizie a disposizione di giudici e avvocati incaricati di stabilire eventuali responsabilità penali e civili.

Ed è questa situazione anomala, e non la presenza di pochi centimetri quadrati di ghiaccio brinoso su un'ala, a costituire davvero un pericolo per la navigazione aerea.

(11 giugno 2014)

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