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MH-17: prime riflessioni

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Mentre continua lo squallido teatrino di barbuti armati e scagnozzi in passamontagna nero che rovistano tra quegli stessi cadaveri e quegli stessi rottami ai quali impediscono l'accesso da parte degli osservatori OSCE, si impongono a chi si occupa di sicurezza aerea alcune riflessioni.


E' a questo punto abbastanza chiaro che, al netto di qualsiasi coinvolgimento emotivo (che pure esiste, ed è forte) non siamo di fronte ad un incidente, e nemmeno a un crimine deliberato, ma a quello che i militari di tutto il mondo, nei più diversi scenari definiscono come collateral damage: un danno accessorio, coinvolgente civili, all'interno di una zona teatro di operazioni belliche, a prescindere dal fatto che si tratti di una guerra dichiarata o di operazioni di guerriglia.

Dando per scontato, ormai c'è rimasta solo la faccia di bronzo di Putin a negarlo, che il Boeing B-777 malese in rotta da Amsterdam a Kuala Lumpur è stato abbattuto da un missile (con tutta probabilità un BUK) lanciato dalla zona dell'Ucraina controllata dai ribelli filorussi dell'autoproclamata Repubblica di Donetsk, la prima domanda che viene alla mente riguarda il criterio con cui le compagnie aeree hanno continuato, anche dopo l'abbattimento di un Antonov An-26, avvenuto il 14 luglio scorso a una quota superiore ai 22.000 piedi, a pianificare i loro voli sulla parte est dell'Ucraina.

Se infatti le raccomandazioni emesse ai tempi di quella che potremmo definire la “crisi della Crimea”, nella primavera scorsa, dalle autorità europee (EASA) e statunitensi (FAA) erano più che altro un avvertimento, un invito (molto forte nel caso della FAA) ad evitare zone di cielo dove la possibilità di avere autorizzazioni confuse e contraddittorie da parte di enti di controllo civili e militari di due stati diversi e tra loro ostili potevano essere prese per quello che erano, e cioè appunto raccomandazioni, l'abbattimento di un aereo a quelle quota rappresentava una escalation le cui ricadute non potevano e non dovevano essere ignorate.

Si trattava infatti della prova che almeno una delle due parti disponeva di una tecnologia abbastanza sofisticata da consentire l'acquisizione di bersagli a quote relativamente alte, oltre la portata dei potremmo dire rudimentali missili terra-aria trasportabili, magari a spalla, da un commando di pochi uomini. Quell'abbattimento era la prova della presenza nello scenario delle operazioni belliche di un sistema d'arma che anche nella sua configurazione “minima” costituisce una seria minaccia anche a quote nettamente superiori a quelle normalmente occupate dagli aerei di linea.

E inadeguate suonano le direttive, emesse proprio dopo aver subito l'abbattimento dell'An-26, delle autorità ucraine, che hanno ulteriormente rialzato il limite inferiore utilizzabile nelle aerovie che sorvolano la parte est dello stato. Il volo MH-17 stava appunto volando appena sopra a questo limite, ma innalzarlo ancora sarebbe equivalso in pratica a chiudere totalmente lo spazio aereo, e questo appariva evidentemente all'Ucraina come un'intollerabile limitazione della propria sovranità territoriale.

Resta a questo punto da chiedersi perché non abbiano provveduto le compagnie aeree stesse, per proprio conto, a scegliere instradamenti alternativi. Ed è triste rispondere che le uniche considerazioni che possono avere spinto il 75% delle compagnie a continuare a volare su un teatro di guerra (dichiarata o no, non ha importanza) sono di carattere puramente economico.

L'ortodromia (così si definisce in navigazione la linea più breve tra due punti sulla superficie terrestre) che unisce gli aeroporti del nord Europa a quelli del sud-est asiatico passa sopra l'Ucraina, e ogni deviazione significativa da questa linea ideale determina un aumento del tempo di volo, con conseguenti maggiori spese sia in termini di carburante che di royalties da pagare agli stati sorvolati, visto che le tasse di sorvolo (spesso molto salate) si pagano in ragione delle distanze percorse.

Eurocontrol ha fatto sapere che solo il 25% delle compagnie che volano da quelle parti, fin da aprile, ha rinunciato a sorvolare l'Ucraina, ma si è ipocritamente rifiutata di dire quali esse fossero. Sappiamo solo, per loro spontanea dichiarazione, il nome di due di queste compagnie: Qantas e Korean AirLines, quest'ultima forse perché “scottata” dall'abbattimento di un suo B-747, nel 1983, da parte di un caccia dell'allora URSS nei cieli della penisola di Sakhalin.

E allora, al di là di ogni considerazione di carattere politico e/o militare, e prima ancora di vedere se si riuscirà a stabilire un minimo di verità condivisa su questa immane tragedia, una domanda è fin da ora lecito porsela: c'era bisogno anche di questi 298 morti per capire (ammesso che lo si voglia capire) una volta per tutte che la sicurezza deve avere la precedenza assoluta su ogni questione di carattere economico?

Tutto questo, ovviamente, senza nulla togliere alle tremende responsabilità di chi quel missile lo ha sparato.

(20 luglio 2014)

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