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Vita da expat

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Chi non ha mai lasciato l'Italia per emigrare all'estero può non essere familiare con il termine "expat", tradotto in italiano con il più semplice e poco esotico "espatriato". Le recenti vicende alitaliche rendono tuttavia questa parola molto attuale.


Infatti, con il prossimo licenziamento di alcune centinaia di lavoratori molti saranno costretti ad emigrare, visto che ormai in Italia le possibilità di lavoro, soprattutto per piloti esperti, sono quasi inesistenti.

Sento anche spesso le lamentele di persone che, stanche di un'Italia che non funziona, si dicono pronte a lasciare il Bel Paese e a trasferirsi lontano di propria iniziativa. Ma è proprio tutto così dorato fuori dai confini nazionali?

Difficile dare un giudizio assoluto perché il discorso è soggettivo e io stesso ho sperimentato luoghi in cui c'è chi vive felice e lo consiglia ad altri e chi invece è disperato e non vede l'ora di tornare a casa.

Ci sono però alcuni elementi che senza dubbio sono validi per tutti e dovrebbero almeno essere presi in considerazione prima di fare il grande passo. Mi permetto di evidenziarli avendo ormai una certa esperienza grazie ai miei trasferimenti tra Europa, Medio Oriente e Asia, con buona pace di mia moglie che mi segue in queste avventure.

La difficoltà maggiore che ho incontrato non è la distanza, come invece si potrebbe pensare, ma le profonde differenze culturali. Quando si viaggia in un paese per vacanza è un conto, ma quando ci si stabilisce in maniera permanente è necessario uno spirito di adattamento non indifferente. Dimenticatevi tutte le vostre vecchie abitudini. I rumori, gli odori anche i colori che vi circondano vi faranno sembrare il risveglio mattutino come ancora dentro ad un sogno.

Solo quando poi cercate il vostro cappuccino preferito finalmente capite che l'Italia, con i suoi sapori, è lontana anni luce. Sì, perché è proprio a tavola che noi italiani espatriati soffriamo di più e anche se non abbiamo mai saputo di essere eccelsi buongustai, qui esce fuori tutta la cultura culinaria che tenevamo sopita dentro inconsapevolmente.

All'improvviso scopriamo che il mondo intero ci invidia per tutto quello che significa essere italiani: il cibo soprattutto, poi la storia e le città d'arte che sono in cima alla lista dei viaggi di tutti gli stranieri. Quando ce lo dicono ne siamo così fieri. Già, ora! ...ora che è troppo tardi e viviamo anche noi all'estero.

Tornare a casa in vacanza non è un grosso problema: con i moderni e comodi aerei nessun punto del globo è troppo lontano da non essere raggiungibile in giornata. Ma è il senso del viaggio che assume un significato diverso. Hai un tempo limitato, forse solo pochi giorni e magari la prossima volta non sai ancora quando sarà.

Ti assale il desiderio di fare tutte le cose che facevi prima, ma senza sprecare neanche un minuto e solo allora ti accorgi di quanto ne hai sprecato prima. Vedi anche cose che non avevi mai notato, come se i tuoi occhi fossero differenti in un confronto sistematico con i luoghi in cui vivi oggi. Apprezzi di più l'atmosfera familiare delle persone che ti circondano, non più alieni dall'idioma incomprensibile, e ti fa rabbia che cose semplici come un asfalto perfetto o una metropolitana pulita siano una abitudine consolidata nel paese che ti ospita, e non ci vorrebbe molto ad avere lo stesso qui.

Gli usi e costumi però bisogna impararli velocemente altrimenti vi ritrovate come me che mentre cercavo parcheggio a Doha vedevo il poliziotto farmi con la mano il classico gesto del "ma te che vuoi?" che per loro invece significa "attendere" e non mi capacitavo di come non riuscisse a capire che volevo parcheggiare la macchina, ovviamente. O quando si prende un autobus ad Hong Kong dove tutti sono in fila ad aspettare e si sale in ordine uno ad uno. E non masticate la gomma americana nella metro a Singapore, altrimenti vi fanno la multa.

Lavorare in compagnie multietniche e volare in posti mai visti prima è molto interessante. Ti apre la mente e ti fa vedere il mondo come un posto molto più piccolo di come lo hai sempre immaginato, dove i confini tra i paesi perdono di significato e ci si sente un cittadino globale. A lavoro però bisogna affrontare una problematica nuova che all'inizio può essere molto frustrante: il diverso approccio che piloti di differenti culture hanno riguardo al volo.

In Italia abbiamo una storica tradizione, che ahimè però stiamo dimenticando, grazie alla quale sono veramente pochi i piloti che scelgono questa professione senza passione. Noi piloti italiani voliamo prima perché ci piace, e poi come lavoro. Ma non è così dovunque.

Ho volato con comandanti che lo fanno solo per soldi, lì dove un comandante è ancora pagato molto bene, con chi lo fa per incontrare le ragazze, perché altrimenti non ne avrebbe l'occasione e pure con chi lo fa e non sa neanche bene perché. E pensare a quanti ragazzi appassionati ci sono, in Italia, che non potranno mai realizzare il loro sogno.

Chi sarà costretto ad emigrare in molti casi si troverà circondato da una atmosfera in cockpit surreale, in cui le parole d'ordine sono: autopilot, autoland e lunghi silenzi in crociera. Dove sono finiti gli avvicinamenti a vista , il volo a mano e il piacere di stare per aria? Estinti. Ma la colpa è anche delle compagnie aeree che non tollerano il minimo errore e licenziano o degradano con una facilità assoluta. Il concetto del "sbagliando si impara" non si applica, bisogna “nascere imparati”.

È normale quindi che l'obiettivo del volo non è trasportare passeggeri, ma riuscire a non essere licenziati e per evitare problemi si usano gli automatismi il più possibile, fino a quando per motivi tecnici si è costretti a volare a mano e allora non si è più capaci.

Non vorrei demotivare nessuno, volare è ancora la professione più bella del mondo, però poterlo fare a casa propria è ancora più bello.

(15 settembre 2014)

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