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Aiuto, non ci sono più piloti - II

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II - (segue) Alla base del crollo delle iscrizioni degli studenti americani registrata da scuole e college d'oltreoceano non c'è solo il fattore spesa, che del resto è comunque sempre stata abbastanza alta per chi, da questa o dall'altra parte dell'Atlantico, non proviene dai ranghi militari.


A fare da deterrente c'è anche il basso stipendio iniziale garantito dalle compagnie regionali, dove in linea di massima ci si può aspettare oggi di iniziare la carriera. Difficilmente gli emolumenti superano i 25.000 dollari l'anno, vale a dire più o meno quello che, in cambio di un ritmo di vita indubbiamente più calmo e meno stressante, si può aspettare, ad esempio, un insegnante (o un avvocato, o un ingegnere) appena laureato. E se è vero che, a differenza di molte altre carriere, la prospettiva di un aumento salariale è più consistente, è altrettanto vero che il tempo necessario per arrivare a un livello di paga più alto si è enormemente allungato.

L'apparente mancanza di interesse ad intraprendere la carriera di pilota sembra dunque legata ad una troppo lunga attesa per passare dai bassi stipendi iniziali a uno stile di vita più confortevole, ma alcuni dirigenti delle scuole di aviazione sostengono che c'è di più, ed è un di più che non è essenzialmente legato al fattore economico.

Pare infatti che l'aumento dei carichi di lavoro e la pesantezza dei turni di volo peculiare delle compagnie regionali, unitamente alla prospettiva di doverci trascorrere un discreto numero di anni, provochino negli aspiranti piloti una sorta di disamore verso la professione. Tanto più che, mentre il passaggio alle cosiddette majors si allontana nel tempo, l'esperienza recente ha dimostrato che neppure queste sono ormai un porto d'approdo sicuro.

La crisi susseguente agli eventi dell'11 settembre 2001, così come le ricorrenti crisi energetiche, hanno infatti determinato recessione, riorganizzazioni aziendali, fusioni, fallimenti e ricorsi al Chapter 11: un mix che in ultima analisi si traduce, dal punto di vista dei piloti, in perdita di posti di lavoro, restrizioni salariali, e tagli di ogni genere sulle assicurazioni e sui piani pensionistici contrattuali.

Insomma, la futura carriera di pilota di una compagnia di primaria importanza, oltre ad essere sempre più remota, non garantisce oggi la tranquillità, il benessere economico e il prestigio sociale di un tempo, e non appare dunque più appetibile ai giovani americani. E se oggi la cosa è sotto gli occhi di tutti, e in primo luogo dei direttori operativi delle piccole compagnie, non si può dire che si tratti di qualcosa di inaspettato.

Un campanello d'allarme l'aveva già suonato nel febbraio del 2009 il mitico Chesley Sullemberger, l'uomo capace di posare nel fiume Hudson un A-320 coi motori spenti con la stessa disinvoltura con la quale la gente normale parcheggia la macchina davanti casa, nel corso di una audizione davanti al Congresso degli Stati Uniti. “Mi preoccupa il fatto- disse in quell'occasione Sully- che la professione di pilota di linea non sia più in grado di attrarre i migliori e i più brillanti”.

Sei anni dopo, da questa parte dell'Atlantico, in una mailing list di piloti italiani c'è chi ha espresso molto più crudamente lo stesso concetto: “Chi semina vento raccoglie tempesta! Hanno distrutto la professione ed ora si stupiscono che nessuno la voglia fare? Adesso gli aerei se li portino loro, magari con i computer...sempre che i passeggeri si fidino!”

(30 giugno 2015)

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