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Un sogno ossessivo - I

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Il lavoro, la famiglia, e l'ossessione di un sogno ricorrente: lasciare i figli per andare al lavoro. Un racconto, scritto nel 2012 per il concorso "Donne che fanno testo" de Il Messaggero, che si sofferma brevemente su emozioni, sentimenti, difficoltà relazionali e sensi di colpa nella vita quotidiana di una hostess (prima parte)


“Ma dai su, Stefania, ragiona, non puoi lavorare, con due figli piccoli, come fai, chi ti assumerebbe poi con questa crisi”? tagliò corto, mia madre. “Fare la precaria per seicento euro, farti licenziare a loro piacimento, orari massacranti e incerti, lascia stare, ti prego” affermò per scoraggiarmi

Sperava così di mettere finalmente una pietra tombale su questo discorso. Nella mente di mia madre, le idee avevano una loro statica fissità. Aveva deciso che si frapponevano troppi ostacoli fra me e il mondo del lavoro. “Chi avrebbe pensato a Gioia e Bea?” osservava.

Quel senso di colpa velato, ma neanche troppo, che mia madre e il mio ex marito mi insinuavano dentro, con questa semplice frase, era devastante e bloccava ogni mia iniziativa di ricerca lavorativa. Ogni volta uscivo dalle periodiche cene di famiglia, gonfie di ipocrisia,  con un senso di sfinimento, di annichilimento in cui mi percepivo come una vittima, senza via di scampo.

Mia madre era stata bloccata al lavoro dalla riforma delle pensioni, non mi aiutava e nemmeno voleva. La parola “pensione”, da un giorno all’altro, era stata rimossa dalle nostre conversazioni. Era stata depennata. Guido, era un libero professionista, in lotta per farsi pagare dallo Stato, dalle Regioni e dai clienti. “Tutti morosi, decreti ingiuntivi a destra e a manca ma nessuno di questi morti di fame, tira fuori un cent, neanche dopo che aspetti mesi, anni!” alzava la voce, infuriandosi. Poi continuava lamentandosi dell’assegno di mantenimento.

Io lo ascoltavo, pensando ad altro. Tanto i suoi discorsi li sapevo tutti a memoria. Non c’erano novità. Ma possibile, mi dicevo, che non capiscano né lui né mia madre che voglio andare a lavorare, che non posso fare solo la mamma? Non erano i nonni a stare a casa a guardare i nipotini, fino a poco tempo fa? Oggi io, a 30 anni, con una laurea e due figli, dovevo stare a casa a fare la mamma a tempo pieno, la casalinga.

Mia madre mi raccontava che lei mi aveva cresciuta lavorando, ma solo mezza giornata e con un buon stipendio, non come oggi. “E chi se ne frega se una volta si lavorava per ben altri stipendi” farfugliavo fra me e me. Oggi il mondo del lavoro è così, farà anche schifo, ti prendono e ti buttano quando non servi più, e allora? mi dicevo. “Se il lavoro è sottopagato e precario non l’ho deciso io!” concludevo.

Mia madre annoverava fra le sue fisse l’idea che crescere i figli personalmente, come aveva fatto lei con me, fosse un valore, e che non si potesse delegare a nessuno quest’onere ed onore. Perché mia madre si ostinava a conservare quella convinzione fossilizzata nella mente? I tempi erano cambiati ma lei si opponeva. “I figli li deve crescere la mamma” sosteneva inflessibile e perentoria. Tutto cambiava ma le idee di mia madre no.

Lei si era dovuta adattare solo al computer quando l’avevano messo in ufficio al catasto, dove lei lavorava. Era stato un amore a prima vista perché lui usava script e un linguaggio binario prevedibile e invariabile, come il suo. Per tutto il resto lei aveva mantenuto le sue idee.

Forse ero rimasta io, una delle ultime madri sulla faccia della terra, ad avere l’incombenza di dare alle mie figlie un attaccamento sicuro. Questa era un’idea bislacca, secondo me, era una balla culturale inventata sui manuali di psicologia dello sviluppo per tenere le donne a casa vicino al focolare, nei tempi passati. (continua)

(20 luglio 2016)

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