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Un sogno ossessivo - III

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Il lavoro, la famiglia, e l'ossessione di un sogno ricorrente: lasciare i figli per andare al lavoro. Un racconto, scritto nel 2012 per il concorso "Donne che fanno testo" de Il Messaggero, che si sofferma brevemente su emozioni, sentimenti, difficoltà relazionali e sensi di colpa nella vita quotidiana di una hostess (terza parte)


(segue) Quella mattina mi svegliai di soprassalto, rumori, passi, porte che sbattevano, sentivo parlare forte in lingua araba. Non riuscivo a riprendere il flusso di coscienza, la mia identità, specie quando ero immersa in un sogno così reale come quello che stavo facendo. Ero madida di sudore e mi pulsava la testa. Il cuscino era sparito chissà dove. Mi sforzavo di vedere qualcosa di familiare in quella stanza buia. Fu un attimo e mi ricordai di essere a Londra.

Ero hostess di volo da diversi anni ma alcune volte, specie quando mi svegliavo di colpo, facevo fatica a capire dov’ero, a spiegarmi perché ero lì.

Dopo essermi riappropriata della mia identità lavorativa riuscivo finalmente a dare un senso alle cose che vedevo intorno a me. Dovevano essere ventiquattro ore secche di sosta, invece quel maledetto vulcano islandese aveva iniziato a spargere ceneri nei cieli di tutta Europa. Stavamo lì bloccati da due giorni ormai. Ero nervosa. Dovevo assolutamente tornare a Roma.

Mi avvicinai alla finestra ed aprii la tenda. Davanti a me, ad un metro, si parava un muro grigio, per terra ghiaia grigia con mozziconi di sigaretta spenti. Alzai lo sguardo in su, verso il cielo, oltre il muro, grigio anche là. Un rombo di svariati decibel mi colpì la membrana timpanica. La mia compagnia aerea era in austerity e così alloggiavamo in un hotel più economico, vicino alle piste di atterraggio di Heathrow, anziché andare downtown. L’aeroporto era aperto, notai con sorpresa. Oggi forse si torna a casa.

Decisi di scrivere quei pochi brandelli sfilacciati di sogno che erano rimasti intrappolati nei miei circuiti mnestici, fino a che facevano ancora capolino prima che, abbandonati a loro stessi, si dileguassero per sempre. La mia analista lavorava sui miei sogni ossessivi per venire a capo del gran casino che c’era sempre stato nella mia vita. La sua grande capacità ermeneutica mi aveva sorpreso fin dal primo incontro e questa emozione di stupore infantile mi costringeva ad andare da lei ogni settimana. I miei sogni cambiavano ma le frasi di mia madre e del mio ex marito si riproponevano sempre, come su un disco rigato. Quei vecchi dischi in vinile di una volta, che si fermavano su una sillaba e la ripetevano all’infinito. “I figli li deve crescere la mamma ma ma ma”. Quella frase mi rimbombava ancora nella testa.

Mi gettai sotto l’acqua fredda, volevo lavarmi di dosso tutto quel sogno appiccicoso. Volevo chiudere fuori dal box doccia quei pensieri sulle mie relazioni affettive critiche. Ma quel senso di tristezza mi seguì  e continuò a star lì con me mentre mi massaggiavo energicamente la pelle con il guanto di crine. Sentii suonare il cellulare. Mi precipitai fradicia, a rispondere.

“Pronto, Lulù, come stai”?
“Bene mamma, quando torni a casa”?
“Tesoro appena il vulcano cessa di sputare fumo, torno subito da te. Mamma torna sempre, lo sai ”, cercai di rassicurarla.
“Mamma oggi compio nove anni, ti ricordi? Torna subito, dai su, ti prego...”

(25 agosto 2016)

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