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Oltre il vulcano

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Benché il nome non sia altrettanto impronunciabile, anche il vulcano Bogoslof (Alaska) sta in questi giorni seminando il caos nei tabelloni di arrivi e partenze degli aeroporti di mezzo mondo, proprio come a suo tempo aveva fatto nella primavera del 2010 l’islandese Eyjafjallajökull.


Anche l’Alaska, esattamente come l’Islanda, è infatti sorvolata da numerose rotte intercontinentali, e in particolare quelle che uniscono l’America del Nord con gli aeroporti di Cina, Giappone, Corea, e Russia nord-orientale. Un volume di traffico che secondo gli ultimi dati arriva ad interessare giornalmente quasi 10.000 passeggeri e svariate centinaia di tonnellate di cargo, con un coefficiente di crescita pari a circa il dieci per cento l'anno.

Ma nella regione del Pacifico settentrionale si trova anche una delle parti più attive del cosiddetto Ring of Fire, una cintura di vulcani attivi che circonda gran parte dell'Oceano Pacifico: sono circa 100 i vulcani potenzialmente pericolosi situati sotto alle rotte aeree che corrono in questa zona. Lungo la penisola dell'Alaska e le isole Aleutine ci sono più di 40 vulcani storicamente attivi, ed altri si trovano ad ovest dell’Alaska, sulla penisola della Kamchatka russa e nelle isole Kurili.

Lungo l'arco di 2.400 miglia dall’Alaska alle Kurili si verificano mediamente 5 eruzioni all’anno. Le nuvole di cenere emesse dai vulcani in questo segmento del Ring of Fire vengono di solito trasportate verso est e nord-est, interessando direttamente le rotte aeree tra Asia e America: i dati più recenti parlano di volcanic ash alert attivi mediamente per 4 giorni all’anno per altitudini superiori ai 30.000 piedi, che sono quelle alle quali la maggior parte degli aerei a getto di grandi dimensioni vola.

Una zona dunque storicamente interessata dal fenomeno anche se, rispetto all’Islanda, meno numerosi sono gli aeroporti direttamente interessati al fenomeno. Nel caso dell’Alaska infatti le direttrici abituali di dispersione delle ceneri, ovviamente condizionate dalla circolazione generale dell’aria nell’atmosfera, corrono verso zone meno abitate (e meno sorvolate) rispetto a quanto succede in Islanda, dove la ricaduta delle ceneri arriva spesso ad interessare anche numerosi aeroporti di Irlanda, Scozia e Inghilterra.

Nonostante questo, l’eruzione del vulcano alaskano Redoubt causò uno dei più gravi incidenti da ingestione di ceneri vulcaniche della storia dell’aviazione, fortunatamente conclusosi (anche grazie all’abilità e al sangue freddo dell’equipaggio) senza vittime… se si eccettuano alcuni uccelli tropicali imbarcati in stiva e non correttamente segnalati nel manifesto di carico, che morirono di freddo in un gelido hangar di Anchorage nelle ore seguenti all’atterraggio. Ma procediamo con ordine.

Sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso l’instabilità politica e la profonda crisi economica che avevano colpito l’Unione Sovietica, accompagnandone la fine, rendevano preferibile per molte compagnie aeree mettere in conto un allungamento dei voli, e raggiungere il Giappone evitando il sorvolo della Siberia, area notoriamente critica anche in condizioni più tranquille. Era dunque prassi comune, soprattutto dai grandi aeroporti del nord Europa, instradare i voli verso ovest, anziché verso est, magari prevedendo uno stop intermedio in Canada o in Alaska per rifornirsi di carburante.

Ed era proprio questo che il volo KLM 867 stava facendo il 15 dicembre del 1989: decollato da Amsterdam e diretto a Tokyo, si trovava in discesa verso l’aeroporto di Anchorage, a poca distanza dal vulcano Redoubt, che dopo un periodo di inattività di quasi novant’anni, aveva ripreso la sua attività eruttiva proprio il giorno precedente.

L’ingresso nella nube vulcanica, nascosta alla vista e al radar meteo da formazioni nuvolose “normali”, provocò l’arresto di tutti e quattro i motori del Jumbo, che tra l’altro era praticamente nuovo, essendo in servizio da meno di sei mesi. Tutti i quattro turbofan del 747 si fermarono uno dopo l’altro ad una quota di circa 27.000 piedi, mentre l’equipaggio, resosi conto in ritardo a causa delle condizioni meteo di trovarsi nel bel mezzo della nube vulcanica, cercava di risalire in quota.

Trasformato in un enorme aliante il Jumbo planò fino a una quota di 13.000 piedi (in una zona dove le montagne arrivano ad 11.000) prima che l’equipaggio riuscisse a riavviare i motori, i quali, benché danneggiati, consentirono comunque all’aereo di arrivare fino all’aeroporto di Anchorage. La situazione era resa complicata dai continui black out elettrici che si verificavano ogni qualvolta l’impianto elettrico si riconfigurava per adeguarsi alla situazione dettata dagli spegnimenti e riaccensioni dei motori, dalla difficoltà delle trasmissioni radio dovuta al danneggiamento delle antenne, e da ultimo anche dalla scarsa visibilità esterna, causata dalla cenere depositatasi sui parabrezza.

Ci vollero 80 milioni di dollari (comprensivi della sostituzione di tutti e quattro i motori) per rimettere l’aereo in linea di volo: mentre scrivo queste righe il B747-400 uscito 28 anni fa dagli hangar della Boeing col numero di serie 23982, immatricolato per la KLM come PH-BFC e sopravvissuto a un’eruzione vulcanica, è appena atterrato ad Amsterdam di ritorno da un volo a Hong Kong.

(12 luglio 2017)

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