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Verso un umanesimo tecnologico - I

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I - Secondo una massima di Erik Fromm, la nostra civiltà sta producendo macchine che si comportano come uomini e uomini che si comportano come macchine. Nel campo dell’aviazione commerciale questa affermazione ha un grano di verità, e gli incidenti che hanno coinvolto il Boeing B-737 MAX-8 ci offrono un valido spunto di riflessione.


Questi ultimi incidenti aerei, che hanno coinvolto degli equipaggi indonesiani ed etiopi, sono stati apparentemente causati da comportamenti delle macchine che hanno preso il sopravvento sull’intervento umano. Ciò ha provocato una certa inquietudine nell’opinione pubblica, che percepisce tale automazione come una minaccia. Progressivamente, le operazioni del modello del Boeing 737 MAX sono state sospese dapprima in Cina, poi in Europa e infine in America. Una decisione dettata più dalla frenesia che ha scosso l’opinione pubblica e dal timore di responsabilità da parte degli enti regolatori, che da un ragionamento a sangue freddo e ponderato.

Il tema di fondo non è la pericolosità dell’automazione del B-737, ma del rapporto uomo-macchina che si è andato affermando dagli anni Ottanta in poi e che riguarda un po’ tutti i costruttori di aerei. All’epoca, i piloti, i principali utenti di questo tipo di automazione, non hanno percepito adeguatamente i punti di caduta di una rivoluzione tecnologica che ha introdotto nuove filosofie di volo, nuovi apparati di navigazione, nuovi strumenti che richiedono una assimilazione da parte dell’utilizzatore tutt’altro che a-problematica.

È noto agli studiosi di sicurezza aerea che la prima causa di incidente risieda nell’errore umano, indotto da una serie di caratteristiche che ricadono sotto l’etichetta “fattore umano”. L’errore è solo l’epifenomeno che noi osserviamo come atto immediatamente precedente un disastro aereo, ma le vere cause sottostanti riguardano una serie di fattori tra i quali le prestazioni e le limitazioni umane, un carente lavoro di gruppo a bordo, elementi legati ai rapporti interni all’organizzazione socio-economica, il rapporto uomo-macchina e ultimamente anche alla resilienza psicologica dei piloti, come il caso Germanwings ed altri avvenuti tra il 2013 e il 2015 sembrano indicare.

La visione dell’uomo come essere fallace, in grado di rappresentare la principale minacce alla sicurezza aerea è però una distorsione cognitiva. Come nota Erik Hollnagel, uno dei massimi esponenti dell’approccio alla sicurezza denominato Resilience Engineering, quando diciamo che c’è un incidente ogni dieci milioni di voli, noi andiamo ad investigare come e perché è successo l’evento. In questo modo però si trascurano invece le 9.999.999 volte in cui le cose sono andate bene, nonostante un ambiente pericoloso ed ostile in cui gli equipaggi sono riusciti a limitare i danni e a garantire la sicurezza districandosi tra norme inadeguate, tecnologia “unruly”, variabilità ambientali e fattori organizzativi.

Di tutti questi casi di successo non rimane traccia, quindi il contributo umano non viene percepito con la stessa intensità rispetto ai casi (totalmente minoritari) in cui invece una serie di circostanze ha causato l’incidente. E dato che noi contiamo gli incidenti e non i voli senza conseguenze, è ovvio che abbiamo una visione distorta del reale apporto alla sicurezza fornito da un essere intelligente, flessibile, creativo che riesce a trovare (quasi) sempre la soluzione giusta anche in mancanza di risorse e di indicazioni.

Se voi parlate con un addetto al pronto soccorso, noterete una percezione del pericolo di molti ordini di grandezza rispetto ad una persona che vive una vita regolare e routinaria. Vedendone di tutti i colori, egli tenderà ad impedire ai figli di uscire la sera, di prendere il motorino, di andare in discoteca e così via. La sua visione della realtà è legata a ciò che vede e quindi si regolerà di conseguenza.

Non diversamente è successo nel campo della sicurezza aerea. Negli anni Ottanta, quando ancora lo studio del fattore umano era agli albori, gli ingegneri presero possesso dei dipartimenti di ricerca delle case costruttrici di aeromobili, immaginando, come l’addetto al pronto soccorso, che i disastri fossero determinati da un elemento del sistema impazzito che andava controllato e al quale occorreva fornire sempre più ausili per limitare l’insorgenza degli errori.

Sebbene il fattore umano sia stato studiato già prima della seconda guerra mondiale (in Italia addirittura padre Agostino Gemelli, al quale sono intitolati diversi ospedali cattolici, fu un precursore degli studi sul fattore umano) e la Human Factor Society risalga al secondo dopoguerra, è con la conferenza di Istanbul del 1975 che si pone l’accento sul ruolo del fattore umano nelle dinamiche incidentali.

La cartina tornasole di questa intuizione fu l’incidente di Tenerife del 1977, ancora oggi il più grave incidente nella storia dell’aviazione commerciale, dovuto proprio a decisioni sbagliate indotte da diversi fattori tra i quali una carente interazione di gruppo, dinamiche organizzative, norme farraginose, etc. (continua)

(19 marzo 2019)

 

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