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Verso un umanesimo tecnologico - IV

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(segue) IV - A tutto quanto fin qui detto si deve aggiungere lo startle effect, cioè l’effetto sorpresa che pone il soggetto in condizione di dover affrontare l’inaspettato. Occorre anche tenere conto che quello che comunemente chiamiamo sorpresa ha in realtà due accezioni che gli americani definiscono situational surprise e fundamental surprise.


Nel primo caso, noi percepiamo qualcosa di inaspettato, ma dopo il primo istante di sorpresa rientriamo nel nostro assetto mentale che ci permette di inquadrare l’informazione strana o contraddittoria all’interno di un contesto di significato. Ad esempio, sono in autostrada e sento un botto, seguito da una sbandata del veicolo. Non me l’aspetto, ma quando ho capito che è scoppiata una gomma, cerco di frenare, di accostare verso il ciglio della strada, di rallentare per poter cambiare la ruota. Stiamo parlando qui di situational surprise.

Immaginiamo invece di guidare in autostrada e a un certo punto la macchina comincia a volare. Per i primi tre secondi non solo non riusciamo a capire, ma non parliamo nemmeno più. Siamo sbalorditi. Siamo incapaci anche di elaborare una sorta di contromisura, di attingere ad una conoscenza pregressa o di elaborare una strategia di uscita. Questa è la fundamental surprise.

Certamente, c’è chi obietterà che le macchine non volano e quindi questo è un esempio non pertinente. In realtà, per i piloti del volo AF 447 l’Airbus è un aereo che “non stalla”, quindi la voce STALL era incompatibile con le loro conoscenze, con ciò che si aspettavano e con ciò che potevano fare. Ascoltando il registratore di volo si sentono le concitate voci dei piloti che esprimono a tratti perplessità, a tratti stupore, a tratti aggressività per non riuscire a venire a capo della situazione. Più volte uno dei piloti esclama “Non so cosa stia succedendo”. A pochi secondi dallo schianto sulla superficie dell’Oceano il copilota più anziano, consapevole della propria imminente sorte, esprime con una sorta di sconforto “Non ci posso credere”. Il suo collega a destra, a due secondi dalla propria morte, rispose: “A che cosa non puoi credere?”.

Queste fundamental surprise possono indurre un equipaggio in errore sia perché si tratta di affrontare situazioni mai viste, sia perché non si è addestrati ad affrontarle, sia perché il lavoro di gruppo non risulta efficace per via di scarsa comunicazione (silenzio, balbettii, esplosioni di rabbia, etc.) sia infine perché il livello di stress ottunde i sensi e il ragionamento.

Nel caso del fallace rapporto uomo-macchina sono diversi anni che gli analisti che si occupano di sicurezza aerea hanno portato alla luce dei fenomeni che vanno affrontati con cognizione di causa, tra i quali la perdita di controllo indotta da diversi fattori. In primo luogo, la perdita di capacità al volo manuale da parte dei piloti che utilizzano gli automatismi per gran parte del volo, anche spinti da filosofie organizzative delle compagnie aeree che vedono nella variabilità delle prestazioni umane una minaccia. In un volo di lungo raggio della durata di 12 ore, i piloti volano manualmente per circa tre minuti.

In secondo luogo, vi è una sorta di intimidazione nei piloti nel dialogare con un’automazione di cui non si conoscono i dettagli in modo esauriente. Le modalità di interazione con il Flight Management System e con il sistema auto-flight non sono sempre chiari, sia perché i software cambiano continuamente, sia perché, a causa di una complessità estrema, non è più possibile conoscerne la logica interna. Le case costruttrici tendono a fornire sempre meno nozioni su come funziona un aereo, forti anche della constatazione che vi sono sistemi di sistemi che formano un eco-sistema elettronico sconosciuto spesso anche ai progettisti. Non è un caso che molte avarie non sono prevedibili. Airbus avvisa i piloti nel manuale di impiego che quelle che sono le indicazioni prevedibili potrebbero non manifestarsi con le modalità riportate, in funzione di quali sistemi e con quali tempistiche vanno in avaria.

In terzo luogo, non esiste più una netta distinzione tra volo manuale e volo automatico. Su aerei come l’MD-80, un aereo di vecchia generazione, erede della linea del DC9-30, l’impianto-base era meccanico. Dal volantino del pilota partivano cavi di acciaio che arrivavano fino alle superfici aerodinamiche. Fisicamente, il pilota muoveva le ali e la coda.

Oggi, il side-stick degli aerei Airbus, cioè la moderna cloche si trova di lato rispetto alla posizione del pilota, non muove nulla di meccanico. Attraverso una fibra ottica, arriva ad un computer centrale che elabora gli input dei piloti, li invia sempre attraverso fili ad un altro computer che si trova in prossimità delle superfici aerodinamiche che sono mosse da attuatori idraulici. In pratica, il fatto di non avere cavi di metallo che corrono lungo la fusoliera rende l’aereo molto più leggero. Inoltre, l’aereo è aerodinamicamente instabile, quindi molto manovrabile, ma molto impegnativo per il pilota da condurre manualmente. Ecco perché i computer servono per stabilizzarlo. Di conseguenza, il pilota che vola manualmente non è più in diretto contatto con le superfici ma il suo input è sempre filtrato da diversi livelli di automazione.

Questa automazione può andare incontro a delle avarie come qualsiasi altra cosa elettronica: e qui si apre un mondo. (continua)

(13 aprile 2019)


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