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Truck driver

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Rientrando a Roma in mattinata, dopo un volo notturno, mi capita spesso di riposare qualche ora prima di mettere la prua a Nord, sull'Aurelia, per tornare a casa mia, in Toscana. E se nel frattempo si fa ora di pranzo, amo fermarmi in un ristorante di camionisti dove i tonnarelli con i moscardini sono da antologia.

Andare a mangiare in divisa non mi piace, ma a volte non c'è scelta: se fa freddo mi mimetizzo sotto a un pullover, ma con il bel tempo devo entrare in maniche di camicia, e allora i casi sono due.

Se mi tolgo cravatta e galloni, mi scambiano per un cameriere: appena il tempo di entrare e già c'è chi chiede il caffé, un coltello pulito o il conto.

Se me li tengo, mi sento un pesce in un acquario, con tutti che mi guardano con malcelata diffidenza quasi a cercar di capire che razza di nuovo poliziotto, carabiniere, finanziere io sia.

Ieri, complice un po' di turbolenza che mi aveva fatto rovesciare addosso l'ultimo caffè preso a bordo, ho optato per la seconda soluzione, con galloni e cravatta a coprire la macchia.

Mi hanno fatto accomodare a un tavolo vicino al muro, ideale prosecuzione di una tavolata di sei o sette camionisti i quali, ovviamente, hanno cominciato a sbirciarmi discretamente: "Maresciallo, sì... ha le strisce... ma di quale arma?" si stavano evidentemente chiedendo. E alla fine uno, un magrolino che sembrava Al Pacino, ha rotto gli indugi e mi ha domandato che uniforme fosse la mia.

La risposta mi ha immediatamente posto al centro dell'attenzione generale, e così hanno voluto sapere quale aereo pilotassi, com'era fatto, se era difficile e da dove venissi. Ho raccontato loro, con dovizia di particolari, la mia giornata e... ci sono rimasti male. Si aspettavano, chiaramente, mirabolanti racconti di viaggi in paesi esotici, conditi con resoconti di notti di sesso sfrenato con splendide e disponibilissime hostess e forse... chissà... perfino droga e rock-and-roll, ma le loro aspettative sono andate deluse.

Ci siamo poi ritrovati al banco, per il caffè, e lì mi è capitato di raccontare il mio ultimo viaggio in Sudamerica: due giorni e mezzo tra andare e tornare, due nottate ai comandi. Si sono guardati, evidentemente interdetti, e ho sentito uno di loro mormorare ad un altro: "Oh, ma questi li tengono attaccati al volante peggio di noi!"

Poi il più anziano, un tipo coi capelli bianchi e due bei baffoni ancora neri, che fino a quel momento non aveva detto una parola, mi ha apostrofato: "Comandante, scusate se mi permetto," e le T aspirate, eredità millenaria della theta greca, scivolando dolcemente sotto i suoi baffi mi hanno subito resa manifesta la sua origine calabrese "ma io vi debbo ringraziare", e al mio legittimo stupore ha continuato: "C'è mia moglie che da un po' di tempo si è messa in testa di andare in Argentina, a trovare certi parenti, ma se gli racconto come vi fanno lavorare, sicuro che cambia subito idea."

E con questo la conversazione è definitivamente morta. Ha insistito per pagarmi il caffè e siamo usciti sul piazzale, dove gli ho offerto una sigaretta. Siamo rimasti un po' lì, a fumare in silenzio, mentre il suo "copilota", quello somigliante a Al Pacino, si arrampicava sopra a un bestione giallo e rosso... "a fare i controlli pre-volo" mi è venuto da pensare. L'ho ringraziato ancora per il caffé, e si è schermito dicendomi: "A buon rendere comandante, io tutti i martedì mi fermo a pranzo qui... a volte anche il venerdì, quando me ne riscendo a casa, se capitate..." e mi ha teso la mano: "Mi chiamo..."

La sua voce è stata coperta da una gran botta di clacson, che mi ha fatto sobbalzare, subito seguita dal rombo del motore che si avviava: evidentemente AlPacino aveva ricevuto l'autorizzazione al decollo. Si è inerpicato anche lui a bordo, ha chiuso la portiera e, affacciatosi al finestrino, mentre già il TIR cominciava a muoversi, mi ha gridato: "Comanda', statevi accorto..."

(1 aprile 2010)

 

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