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Fuori pista

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All’aeroporto di San Paolo, pochi anni fa, ci fu il più grave incidente della storia dell’aviazione civile brasiliana: un aereo atterrò sulla pista, ma non riuscì a fermarsi prima della fine, prendendo fuoco. Non ci furono superstiti.

L’incidente di Mangalore porta di nuovo alla ribalta il fenomeno delle runway excursion.

Con il termine runway excursion si intende l’uscita di pista dell’aereo per eccessiva energia cinetica alla fine della pista (overrun) oppure l’abbandono, di lato, della superficie della pista (veer off).

In generale, i motivi di questa uscita di pista dipendono da diversi fattori, come ad esempio, l’eccessiva velocità, lo stato della pista (umida, bagnata, contaminata da neve o da acqua stagnante), un’avaria improvvisa al sistema frenante, oppure toccare la pista in un punto troppo avanzato, con la porzione di pista residua che non permette di arrestare la corsa di decelerazione prima della fine pista.

Spesso, un atterraggio “lungo” è conseguenza di avvicinamenti destabilizzati, cioè fuori dai parametri che permettono di presentarsi in testata pista con quota, assetto, configurazione e velocità corretti.

Quello della runway excursion è un tema molto sentito nell’industria e ad oggi sono allo studio alcuni sistemi che dovrebbero essere in grado di avvisare il pilota se l’energia cinetica con la quale si presenta sulla soglia pista è superiore a quella necessaria per fermarsi.

Purtroppo, è molto difficile progettare tale sistema, poiché le variabili in gioco sono molte. Entra qui in gioco la professionalità del pilota che mettendo insieme conoscenze teoriche, esperienza e dati ricevuti dalla torre di controllo, valuta se la distanza disponibile è superiore a quella richiesta per un atterraggio in sicurezza.

Esistono delle tabelle fornite dalla casa costruttrice dell’aereo che indicano quale distanza è necessaria per atterrare. Vediamo da dove vengono i numeri riportati sulle tabelle, cioè quali sono i parametri di certificazione. La Boeing non effettua prove di atterraggio su tutte le piste del mondo, ma sceglie una pista “modello”, da cui ricava i dati, e poi, con un procedimento induttivo, presume che le piste con caratteristiche analoghe permettano le stesse prestazioni.

La conoscenza dei presupposti di sistema aiuta molto a prendere una decisione corretta. Ad esempio, chi effettua le prove è un collaudatore, che ha delle capacità mediamente superiori a quelle di un pilota di linea. Questo collaudatore utilizza l’aereo secondo certi criteri dai quali derivano i numeri che poi i piloti di linea utilizzano nelle loro operazioni di tutti i giorni.

Quali sono questi elementi utilizzati nei voli test per determinare la lunghezza di pista necessaria e scrivere poi le tabelle? La configurazione prevista per l’atterraggio, una velocità pari al trenta per cento velocità di stallo (alcune case costruttrici aggiungono anche cinque nodi), contatto con la pista esattamente a trecento metri dalla testata (indicati su tutte le piste da strisce bianche caratteristiche), applicazione totale dei freni con impianto efficiente, azionamento degli spoiler (dalla cabina, i passeggeri vedono alzare dei pannelli ortogonali sulle superfici delle ali, durante l’atterraggio).

Questa è la prova effettuata. Trovata la distanza necessaria, si moltiplica per un fattore fisso (1,67) e si trova la distanza di pista necessaria per il pilota di linea. 

Tra le variabili riguardanti l’aereo c’è in primo luogo il peso; c’è una bella differenza di peso tra un aereo pieno di passeggeri e uno vuoto. Considerazioni a parte meritano configurazione prevista e stato del sistema frenante, che non a caso sono inserite nelle procedure anormali di volo. Poi troviamo lo stato della pista che può essere Dry (asciutta), Damp (umida), Wet (bagnata), SSW (Snow, Slush, Standing Water), ossia con neve, fanghiglia o acqua stagnante. L’attrito è diverso tra una pista asciutta ed una innevata, quindi le distanze necessarie, nel secondo caso, aumentano.

Sempre riguardo la pista, occorre considerare la pendenza. L’ICAO, l’ente che emana le norme per l’aviazione civile mondiale, ad esempio, suggerisce che le piste con oltre 2000 metri non abbiano una pendenza superiore all’1%. È ovvio che è più facile fermarsi con una pista in salita piuttosto che una in discesa.

Ci sono poi le piste “a conca” (le estremità, rappresentate dagli inizi della pista sono più alte del centro, come Reggio Calabria) o “a gobba” (il centro pista è più alto delle estremità, come Palermo). La pendenza media potrebbe essere un dato fuorviante, poiché dipende in quale parte ci si trova al momento della frenata.

Infine, le variabili dovute alle condizioni meteorologiche:

  • La temperatura (se fa caldo è come se l’aria fosse più rarefatta, fornendo quindi meno attrito);
  • la pressione atmosferica (una bassa pressione ha lo stesso effetto dell’alta temperatura);
  • il vento (in coda è peggio che frontale, perché spinge l’aereo più avanti).

In conclusione, la moltitudine di dati che sono implicati nella sola decisione di valutare la distanza di pista necessaria, rende l’idea dell’enorme conoscenza implicita che ogni pilota porta con sé, frutto di anni e anni di esperienza.

La cosa che lascia perplessi, nell’incidente di Mangalore, è che la pista disponibile era intorno ai 2500 metri, quindi mediamente una pista sufficiente per atterrare in sicurezza. Ma le cose non sono mai così semplici come sembrano a prima vista e dall’analisi del voice recorder forse gli investigatori riusciranno a capire le dinamiche di interazione a bordo tra i piloti. Andando a fondo si scopre che c’è sempre un perché.

(4 giugno 2010)

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