L'incidente del Columbia

Scritto da Antonio Chialastri

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La NASA (National Aeronautics and Space Administration) è un ente statale americano nato nel 1958, con firma dell’allora presidente Eisenhower, per contrastare i successi spaziali russi che nel 1957 avevano mandato in orbita lo Sputnik.

In tempo di guerra fredda, il presidente istituì questa agenzia con il fine di cominciare la ricerca in campo aeronautico e spaziale che avrebbe poi portato l’uomo sulla Luna. Seguendo il detto di Mao Zedong: “Non importa di che colore è il gatto, l’importante è che prenda il topo”, Eisenhower incaricò un uomo particolare per condurre queste ricerche. Fu infatti nominato Wernher Von Braun, uno scienziato ex nazista, specializzato nella costruzione dei razzi, che aveva costruito tra l’altro anche le bombe V2 lanciate su Londra durante la seconda guerra mondiale.

In meno di dieci anni, l’uomo toccò il suolo lunare. Da allora, la fama di ente di eccellenza, che raccoglieva le migliori menti scientifiche, ha reso la NASA un punto di riferimento per tutte le organizzazioni aeronautiche.

Durante gli anni ’70, però, ci fu un cambio di mentalità che portò una serie di manager a gestire l’ente secondo un principio innovativo: “Cheaper, faster, better”, (tradotto: faremo le cose in modo più economico, più veloce e meglio di prima).

A partire dal 1972, la NASA fu interessata da un cambio culturale profondo imposto dall'allora Presidente Nixon: da struttura prettamente tecnica e votata alla ricerca dell'eccellenza tecnologica fu trasformata in struttura produttiva capace di generare bilanci in attivo, in ossequio, appunto, allo slogan “Cheaper, faster, better”.

Questa trasformazione però male si adattava al livello di rischio che rimaneva, comunque, invariato rispetto alla precedente struttura e missione. Il mondo degli affari e l'ideologia del business portarono ad una graduale sottostima del “rischio accettabile” nel dimensionamento dei processi di controllo e sicurezza. Questa radicale modifica della struttura organizzativa influenzò la cultura manageriale che fu costretta a produrre processi e metodiche volte al contenimento dei costi, al miglioramento dell'immagine e ad una politica attenta alle “pressioni” dettate dalle esigenze esterne.

Ben presto la NASA divenne una struttura burocratica fortemente gerarchizzata che, sebbene perfettamente idonea ad assolvere i compiti derivanti dal nuovo corso, provocò, come effetto indesiderato, un blocco dei flussi comunicativi fra i vari settori e dipartimenti, impedendo lo scambio “aperto” di informazioni e la verifica incrociata dei processi e rendendo, di fatto, vana l'esperienza accumulata in altri incidenti (Apollo 13 e Challenger).

La tipologia di attività e l'elevato rischio delle operazioni, vista come “critica” aperta e continua sui processi e sulle attività, unita ad una integrazione profonda fra i vari gruppi di lavoro, era l'unico mezzo in grado di presidiare l'accettabilità del rischio associata alle operazioni, ma nella nuova organizzazione, manager e capi dipartimento, percepiti come “troppo critici” (o che segnalavano anomalie nel processo produttivo) rischiavano il posto di lavoro.

La conseguenza fu che i “segnali deboli”, sino ad allora valorizzati ed indagati quale fonte primaria per l'individuazione delle aree di possibile criticità, non vennero resi noti, rendendo di fatto “dormiente” l'incidente nel sistema: è quello che gli americani definiscono “an accident waiting to happen”, un incidente che aspetta solo di accadere.

Il paradosso dell'incidente del Columbia, secondo il rapporto d'inchiesta, è che nessuno ha commesso un vero e proprio errore, ma si è piuttosto trattato di un disastro conforme alle norme ed alle regole, ad un modello organizzativo e normativo vigente. Erano però quelle regole ad essere sbagliate ed il personale -a tutti i livelli- ad avere una formazione inadeguata rispetto al reale livello di rischio.

La NASA non si comportò, pertanto, a dispetto della sua tradizione e dell'immagine mostrata all'esterno, come una organizzazione ad alta affidabilità. I suoi attori, incapaci di apprendere dai segnali di pericolo e dagli innumerevoli piccoli errori che si verificavano, non furono in grado di attuare miglioramenti volti ad impedire l'insorgenza di un disastro e, ciò non per incapacità, ma per “miopia” rispetto ai processi adottati, con conseguente inefficacia e frammentazione del controllo e della supervisione.

Questa conclusione pone preoccupanti interrogativi sulla genesi dell'errore organizzativo e sulla capacità del sistema di mantenere sotto controllo l'accettabilità del rischio al mutare degli eventi e delle strutture.

antonio.chialastri(at)manualedivolo.it

(11 gennaio 2012)