Asiana 214: tiriamo le somme

Scritto da Pietro Pallini

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(segue) Chi ha pazientemente seguito la serie di articoli dedicati allo sfortunato atterraggio del volo Asiana 214 a San Francisco ha ora un quadro un po' più preciso del complesso intreccio di fatti nel quale si sono sviluppate le premesse dell'incidente.


Ci troviamo dunque davanti ad un equipaggio di lungo raggio sottoposto agli effetti del jet-lag, composto da un istruttore che per la prima volta sedeva a destra in situazione operativa e da un comandante alle prime armi sul tipo di aereo, che dopo aver fatto una scelta dei tempi di riposo dettata da considerazioni di carattere istruzionale, ma probabilmente inadeguata, si trova ad operare in un contesto stressante, caratterizzato da intenso traffico ed elevata complessità.

E' la classica situazione in cui la difficoltà del compito assegnato finisce con l'eccedere le capacità dell'equipaggio, e in queste situazioni sorge il pericolo di trovarsi "dietro" all'aeroplano... si verifica cioè una progressiva perdita della situation awareness. Quanto è durata? e soprattutto, quanto ha impiegato l'equipaggio a rendersene conto?

La risposta a quest'ultima domanda è relativamente semplice: esattamente dal momento in cui l'aereo sembrava essere finalmente stabilizzato sulla corretta traiettoria di avvicinamento a quello in cui le manette sono state avanzate nella posizione di massima spinta: quindici secondi in tutto, ma sono bastati a rendere l'incidente inevitabile.

L'atteggiamento delle autorità americane, che sono apparse forse troppo precipitose nell'attribuire tutte le responsabilità, fin dalle prime ore dopo l'incidente, ad un grossolano errore di pilotaggio, è forse giustificata dall'ansia di sollevare ogni possibile dubbio sulla sicurezza di un modello di aereo, il Boeing B-777, molto diffuso e fino a quel momento immune da incidenti mortali: una preoccupazione di carattere economico, dunque, e non tecnico.

Comunque sia, pochi giorni dopo l'incidente di Asiana 214 la Federal Aviation Agency ha emanato disposizioni che vietavano agli equipaggi stranieri l'esecuzione dei famigerati visual approach sugli aeroporti USA. La decisione è stata accolta con irritazione e scetticismo dalla fraternity mondiale dei piloti, che male hanno digerito la nemmeno troppo velata accusa di scarsa preparazione rivolta agli equipaggi non-USA. In più di un forum per addetti ai lavori c'è chi ha reagito facendo notare che al giorno d'oggi, in una situazione di traffico sempre più intenso e in un contesto di automazione sempre più invasiva, era caso mai il concetto stesso di visual approach a dover essere rivisto. A stabilire se fossero più giusti questi allarmi o i divieti dell'FAA ci ha pensato come spesso succede, la cruda realtà.

Poche settimane dopo l'evento di San Francisco, il 14 agosto, un Airbus A-300 cargo della compagnia UPS ha impattato il terreno a poche centinaia di metri dalla pista di un aeroporto dell'Alabama, dove stava completando a vista una procedura di avvicinamento non precision. Ancora qualche mese, e il 20 novembre un B-747 modificato per il trasporto di pezzi di fusoliera per conto della Boeing stessa ha letteralmente "sbagliato" aeroporto, atterrando su una corta pista distante una quindicinadi chilometri dalla sua destinazione. In entrambi i casi gli equipaggi (stavolta americanissimi) stavano conducendo un visual approach in situazioni, sia pure per differenti motivazioni, di carico di lavoro più alto del normale.

E se qualcuno avesse ancora dei dubbi sulle insidie legate all'esecuzione di un visual approach, basta scorrere le news aeronautiche degli ultimi mesi per verificare che, durante l'esecuzione di manovre di questo genere, il 18 dicembre 2013 un B-767 di Ethiopian Airways si è posato sulla pista di Arusha (Tanzania) anziché su quella di Kilimanjaro; il 12 gennaio di quest'anno un B-737 di Southwest Airlines è atterrato nella città giusta (Hollister, Missouri, USA), ma nell'aeroporto sbagliato; e due giorni dopo solo l'intervento di un controllore del traffico ha impedito a un B-787 di Air India di posarsi su uno degli aeroporti secondari di Melbourne, in Australia.

Forse ce n'è abbastanza per rimettere seriamente in discussione metodi di addestramento e modelli di gestione del traffico aereo.

(18 febbraio 2014)