Etihad, l’Equity Alliance Strategy e Alitalia... 3 anni dopo

Scritto da Jean Paul Nanut

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Eravamo agli inizi del 2014 e Alitalia era formalmente entrata a far parte del programma Equity Alliance di Etihad. Da appassionato e discreto conoscitore della materia (ma anche da dipendente) non potevo non cercare di capire quali e diverse strategie avrebbe adottato il nuovo management.


E soprattutto quale sarebbe stato il posizionamento della nuova Alitalia che di rosso, oltre ai bilanci, si apprestava a vestire anche le proprie hostess di volo.

Andando oltre l’enfasi (“... per riposizionare Alitalia quale compagnia aerea customer-centric di classe mondiale.”) e le dichiarazioni degli attori (“sarà la compagnia più sexy d'Europa") nella mia prima analisi cercai di partire dalla matrice Growth-Share della BCG per arrivare a fare qualche considerazione sulle possibili strategie di impresa, con l’auspicio che l’integrazione avrebbe permesso di declinare meglio le scelte che i due Paesi (soprattutto il nostro) avrebbero dovuto fare per una migliore interpretazione di lungo periodo del proprio trasporto aereo.

Le promesse di investimento e di una profonda rivisitazione del network (e quindi della flotta) unitamente alle favorevoli prospettive sul costo del carburante facevano pensare che forse l’idea di far crescere l’hub di Abu Dhabi attraverso il code-sharing e feederaggio di tutti gli Equity Partners non fosse cosi peregrina.

L’Alitalia seppur ridimensionata a vettore feeder poteva essere risanata da un management straniero e competente. Smettere di essere troppo grande per essere una compagnia piccola, e troppo piccola per essere una grande compagnia. E uscire dalla morsa del CASK (costo espresso in centesimi per posto chilometro offerto) dei voli a corto-medio raggio facendo leva sull’aumento del chilometraggio della tratta media.

Tutti sanno come è finita: l’Alitalia non è diventata la compagnia più sexy né è tornata a fare utili nel 2017. E prossimamente altri e nuovi costi economici e sociali verranno scaricati sui cittadini e sui dipendenti-cittadini.

Il motivo di tale fallimento appare essere direttamente correlato alla mancata coerenza necessaria tra le cose scritte, promesse e le cose fatte. E certamente, per gli amanti dei bilanci... nelle pieghe delle voci di costo Overheads e della quotidiana “Gestion Pratica”.

L’Alitalia, insomma, continua a soffrire dello stesso male di sempre e l’esercizio di disaggregare bilanci, fare analisi e misurare indicatori sintetici di costo pur essendo utile serve a poco, se come disse un mio amico: “...quando i francesi decidono di insignire un nostro ex Amministratore Delegato con la Legion d'Onore per straordinari meriti rivolti alla Francia, mentre un tribunale italiano lo condanna a sei anni, beh: ci deve essere qualcosa che non va.” (grazie Antonio!).

I fallimenti di Alitalia aventi sempre la stessa genesi andrebbero meglio declinati con la mancanza di strategie politiche del Paese (perdita di assets) da una parte e di quelle imprenditoriali dall’altra (ricchezza del paese). Le seconde seguono sempre le prime, non il contrario.

Concludendo, rimane l’amarezza nel constatare che le mie considerazioni di 3 anni fa sono ancora tutte lì, l’unica novità di rilievo è rappresentata dalla nuova stagione di M&A (Merges and Acquisitions) in corso d’opera, inutile dire che Alitalia e Air Berlin saranno due prede facili.

Nel frattempo, il made in Italy nei cieli si è dimezzato e i numeri parlano da soli: in poco meno di 10 anni la flotta Alitalia è passata dai 174 aerei (esclusi i 4 di Volare) ai 140 del 2013, fino agli attuali 122 (AirOne inclusa): negli ultimi anni 4 anni Alitalia ha lasciato a terra altri 20 aerei.

Quanti ne lasceremo questa volta? Vingt, Trente? Zwanzig, Dreißig?

Un grand merci et au revoir
Vielen Dank und Auf Wiedersehen

(15 settembre 2017)