Venti anni prima – III

Scritto da Antonio Chialastri

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Un incidente nato dieci anni prima – parte terza
(segue) Un professionista non può conoscere tutti i dettagli, le pieghe della propria attività. Nessun giudice conoscerà tutte le leggi emanate nel tempo in Italia e nel mondo, tutta la giurisprudenza in ogni dominio regolato dalla Legge.


Nessun medico conoscerà tutto di tutti i sistemi biologici, tutte le terapie disponibili, tutte le eccezioni a quadri clinici anche ordinari, tutti gli effetti collaterali dei medicinali. Allo stesso modo, il pilota non può avere fatto tutte le esperienze di volo, aver vissuto ogni scenario operativo, aver accumulato un’esperienza infinita. La nostra struttura della conoscenza, come quello di qualsiasi professionista, non è mai completa. È affidabile, ma non completa.

Le conferenze servono proprio a mettere in comunicazione i vari professionisti, per scambiare esperienze e punti di vista, fare network, alimentare i presupposti dell’attività svolta con nuovo humus che servirà a fertilizzare nuove riflessioni, nuove conoscenze utili ad aumentare la sicurezza. Non a caso, non si conoscono convegni di falegnami o di idraulici, perché chi ha un mestiere in mano è praticamente auto-sufficiente e soprattutto non vuole condividere il suo sapere con gli altri, che sarebbero visti come competitor.

Negli ultimi venti anni i piloti hanno secondo me mancato di coltivare questa dimensione culturale, di auto-percezione di categoria, di senso di appartenenza ad una comunità professionale che ha svilito la propria immagine ai propri occhi e a quelli dell’opinione pubblica. È lì che si è annidato il seme della de-professionalizzazione, che porta un manager a sentirsi di dover controllare un pilota, imponendo delle policies che oltre ad essere inefficaci, aumentano il fattore di rischio.

Sono i professionisti che devono porre dei paletti invalicabili oltre i quali l’attività manageriale non deve spingersi, pena un decremento della sicurezza. Ci sono cose non negoziabili, aree dove non vi può essere un ritorno immediato tra input e output, ma che nel lungo periodo possono portare a delle conseguenze spiacevoli.

Fattori come la stanchezza non possono essere affrontati secondo il metodo statistico. Ogni volo è soggetto a condizioni che possono essere entro i limiti legali, ma pericolosi dal punto di vista operativo. Un pilota non può calcolare quanto sarà stanco dopo cinque-sei ore di volo notturno. Nessuno lo può sapere. E quando lo sa, potrebbe essere troppo tardi. Come affermò l’ex-capo della FAA: “Non possiamo rintracciare la stanchezza in una salma”.

Anche con la gestione del carburante i piloti si sono fatti convincere che imbarcarne poco sia una virtù. Niente di più sbagliato. Quello che molti faticano a vedere sono gli effetti nel lungo periodo di decisioni che localmente sembrano anche ragionevoli o applicabili. Non si accorgono che con lo stratagemma del “piede nella porta” alcuni principi entrano in sordina e poi si propagano in modo incontrollato rendendo normale ciò che poco tempo prima sarebbe parso assurdo.

Nel caso della fuel policy, il messaggio iniziale fu: “Dato che il carburante costa e che trasportarne grandi quantità incrementa i consumi, quando è possibile (cioè bel tempo, situazioni di traffico conosciute, ritardi contenuti, etc.) cerchiamo di imbarcarne meno”.

Quindi, se sto partendo per una destinazione che è la mia base di armamento, di cui conosco tutto nei dettagli, durante una giornata di bel tempo, ad un orario che so essere “tranquillo”, non farò il pieno di carburante, ma metto il minimo previsto dalle norme. Nel caso in cui quel giorno capiti qualcosa di inaspettato, allora andrò direttamente all’aeroporto alternato senza nemmeno aspettare. Ma questo ragionamento prescinde completamente dall’esperienza della comunità dei piloti, la quale sa che non esistono “giornate tranquille”.

Solo per fare un esempio, lo scorso anno l’aeroporto di Roma Fiumicino ha chiuso cinque volte nei primi sei mesi. Una volta è andata a fuoco l’aerostazione e tutti i voli sono stati dirottati. Poi è andata a fuoco la pineta di fronte alla pista di decollo e il fumo ha impedito decolli e atterraggi per ore. Un altro caso è stato innescato dalla fuga di clandestini da alcuni aerei che erano in partenza. Non sapendo dove si trovassero, il controllo del traffico aereo ha fermato i movimenti a terra e gli atterraggi. Ancora, il radar di controllo del traffico aereo è andato in avaria e tutti gli atterraggi sono stati rallentati, imponendo ritardi consistenti che hanno costretto alcuni aerei a dirottare verso altri aeroporti.

Ebbene, in tutti questi casi, il cielo era sereno e il vento calmo. Praticamente, una “giornata tranquilla”. Io volo da trent’anni e di cose simili anche a me ne sono capitate diverse. Ovviamente, non tutti i giorni, ma il problema è che quanto carburante esattamente mi serve lo scoprirò solo dopo l’atterraggio. (continua)

(25 febbraio 2017)