Du iu spik inglish?

Scritto da Antonio Chialastri

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L’inglese è diventata la lingua internazionale, con più facilità di quella richiesta all’introduzione dell’esperanto, ideato da qualche tuttologo che, d’imperio, voleva far parlare una lingua comune all’umanità... questo perché la lingua segue la dominanza culturale.

E' per questo che il greco antico rappresentava per i popoli mediterranei il terreno comune per la comprensione umana, tanto da definire "barbaro" chi non parlava greco. A loro volta, gli antichi Romani esportarono nel mondo il latino, che fino al tardo medio-evo era la lingua comune in Europa.

Non tutti sanno che tra ‘500 e ‘600 l’italiano è stata la lingua internazionale, parlata nelle corti e nei viaggi continentali. La predominanza del francese si affermò nelle corti europee perché faceva più “figo” ed è così che arrivò fino alla nobiltà russa, che si esprimeva in dialetto parigino piuttosto che nell’idioma della propria, santa, “Madre Russjia”.

Oggi, ci sono quasi un miliardo e mezzo di persone che parlano cinese, ma questa lingua non sembra aver preso piede, nonostante i commerci incessanti con quell’area geografica che chiamiamo Cina.

Anche lo spagnolo è una lingua parlata dovunque, addirittura in casa dei gringos. Vidi un’inserzione nel giornale di Los Angeles in cui l’ospedale locale stava cercando infermieri che dovevano avere, tra le proprie caratteristiche, quella di parlare fluentemente spagnolo. Geograficamente, lo spagnolo è la lingua parlata come lingua madre nel maggior numero di paesi, considerando che tutta l’America Latina che conta, ad eccezione del Brasile, parla spagnolo.

L’inglese si diffonde con la musica, con Internet, con il commercio e la globalizzazione che impone modi di dire, utensili che usiamo quotidianamente con nomi derivati dalla cultura anglosassone. Basti pensare al computer (ed ai suoi derivati), che i francesi si ostinano a chiamare sciovinisticamente ordinateur, piuttosto che dare soddisfazione ai loro rivali di oltremanica.

La cosa divertente per un pilota che deve utilizzare l’inglese in giro per il mondo è la declinazione culturale che ne danno i vari popoli.

Uno spagnolo, ad esempio, non può dire star (stella), perché nella sua lingua le parole non possono iniziare con la esse impura, tanto è vero che lui la chiama estrella. Quindi, quando riceve un’autorizzazione da parte del controllore di volo lo si riconosce dalla sua calata, quando risponde estand-by, oppure esquawk.

I francesi, in generale, hanno un rifiuto mentale di parlare inglese, come quando Massimo Boldi deve parlare romano. Portano con sé la erre moscia anche in inglese, che invece non ha proprio la erre. Chi mantiene, stranamente, una bella erre all’italico modo sono gli scozzesi: “We arrrrr scottish”.

I tedeschi pronunciano con la loro cadenza gutturale un buon inglese, ma talvolta induriscono un po’ troppo la pronuncia, con la loro bella T, assertiva, precisa, imperativa, che campeggia in molte espressioni come “Clear to lantt” (invece di land). Per rendere onore ai tedeschi vi è da dire però che quando volano in Germania, sono tra i pochi che usano la lingua inglese nelle comunicazioni radio con i controllori di volo loro connazionali. Non altrettanto succede in Francia, Spagna ed Italia, dove i piloti tendono ad inserire qualche parola dell’idioma locale nei loro messaggi.

I cinesi non riescono a pronunciare la R, sostituendola con la L. I giapponesi, invece, fanno il contrario: sostituiscono la L con la R. Il mio cognome diventa così Chiarastri, che è quanto di più cacofonico di possa sentire in Giappone, dopo il Pachinko.

In Africa, un particolare enzima non permette di pronunciare la P in modo esplosivo, ma di addolcirla con la B, così quando si vola di notte in Africa nera si sentono le stazioni radio che parlano tra di loro con questi buffi accenti... ammesso che si riesca a filtrare i rumori di fondo delle radio che rendono incomprensibile qualsiasi messaggio ad un orecchio non allenato.

Gli arabi parlano inglese alla velocità con cui parlano arabo, quindi fanno il codice fiscale dell’inglese. La sola cosa che si capisce ad un primo ascolto è lo zero, che pronunciano come Mourinho: “sziru”.

Una volta, un controllore di volo di Tripoli, dopo il nostro atterraggio ci chiese un qualcosa in inglese come “Registration mark, people on board” (come si chiama l’aereo e quanti occupanti ha). Venne fuori una cosa del tipo: “Rgstrascionmrk, piplonbrd”, seguito da un misterioso “rrvdc”. Eravamo in tre dentro il cockpit, cercando di decodificare questa parola inglese sconosciuta, quando uno dei tre ebbe la geniale intuizione: “Ci ha detto arrivederci”. Cautamente, ripetemmo, scandendolo lentamente: “Arrivederci”. E lui: “rrrvdc”: avevamo indovinato.

Infine, c’è l’inglese parlato dagli anglofoni: inglesi, scozzesi, irlandesi, canadesi, americani, australiani, neo-zelandesi. Una variazione sul tema che rende ardua la comunanza di linguaggio. Provate a guardare un film come Crocodile Dundee per vedere se quell’inglese corrisponde alla pronuncia di “Lesson number one: the pen is on the table”.

Un po’ come se una persona che parli il dialetto bergamasco ne incontrasse una che parli il calabrese stretto... insomma, l’italiano in mezzo ci sarà pure, ma è difficile scovarlo. E infine, crepi l’avarizia, il brucculino, cioè l’inglese misto all’italiano della comunità italiana di New York, con cui puoi tranquillamente chiedere: “che ora is it?”.

Insomma, Totò e Peppino non c’erano andati tanto lontani con il “noio vulevòn savuar”.

antonio.chialastri(at)manualedivolo.it

(8 novembre 2011)

L’inglese è diventata la lingua internazionale, con più facilità di quella richiesta all’introduzione dell’esperanto, ideato da qualche tuttologo che, d’imperio, voleva far parlare una lingua comune all’umanità... questo perché la lingua segue la dominanza culturale.

E' per questo che il greco antico rappresentava per i popoli mediterranei il terreno comune per la comprensione umana, tanto da definire barbaro chi non parlava greco. A loro volta, gli antichi Romani esportarono nel mondo il latino, che fino al tardo medio-evo era la lingua comune in Europa.

 

Non tutti sanno che tra ‘500 e ‘600 l’italiano è stata la lingua internazionale, parlata nelle corti e nei viaggi continentali. La predominanza del francese si affermò nelle corti europee perché faceva più “figo” ed è così che arrivò fino alla nobiltà russa, che si esprimeva in dialetto parigino piuttosto che nell’idioma della propria, santa, “Madre Russjia”.

 

Oggi, ci sono quasi un miliardo e mezzo di persone che parlano cinese, ma questa lingua non sembra aver preso piede, nonostante i commerci incessanti con quell’area geografica che chiamiamo Cina.

 

Anche lo spagnolo è una lingua parlata dovunque, addirittura in casa dei gringos. Vidi un’inserzione nel giornale di Los Angeles in cui l’ospedale locale stava cercando infermieri che dovevano avere, tra le proprie caratteristiche, quella di parlare fluentemente spagnolo. Geograficamente, lo spagnolo è la lingua parlata come lingua madre nel maggior numero di paesi, considerando che tutta l’America latina che conta, ad eccezione del Brasile, parla spagnolo.

 

L’inglese si diffonde con la musica, con Internet, con il commercio e la globalizzazione che impone modi di dire, utensili che usiamo quotidianamente con nomi derivati dalla cultura anglosassone. Basti pensare al computer (ed ai suoi derivati), che i francesi si ostinano a chiamare sciovinisticamente “ordinateur”, piuttosto che dare soddisfazione ai loro rivali di oltremanica.

 

La cosa divertente per un pilota che deve utilizzare l’inglese in giro per il mondo è la declinazione culturale che ne danno i vari popoli.

 

Uno spagnolo, ad esempio, non può dire “star” (stella), perché nella sua lingua le parole non possono iniziare con la esse impura, tanto è vero che lui la chiama “estrella”. Quindi, quando riceve un’autorizzazione da parte del controllore di volo lo si riconosce dalla sua calata, quando risponde “estand-by”, oppure “esquawk”.

 

I francesi, in generale, hanno un rifiuto mentale di parlare inglese, come quando Massimo Boldi deve parlare romano. Portano con sé la erre moscia anche in inglese, che invece non ha proprio la erre. Chi mantiene, stranamente, una bella erre all’italico modo sono gli scozzesi: “We arrrrr scottish”.

 

I tedeschi pronunciano con la loro cadenza gutturale un buon inglese, ma talvolta induriscono un po’ troppo la pronuncia, con la loro bella T, assertiva, precisa, imperativa, che campeggia in molte espressioni come “Clear to lantt” (invece di land). Per rendere onore ai tedeschi vi è da dire però che quando volano in Germania, sono tra i pochi che usano la lingua inglese nelle comunicazioni radio con i controllori di volo loro connazionali. Non altrettanto succede in Francia, Spagna ed Italia, dove i piloti tendono ad inserire qualche parola dell’idioma locale nei loro messaggi.

 

I cinesi non riescono a pronunciare la erre, sostituendola con la elle. I giapponesi, invece, fanno il contrario: sostituiscono la elle con la erre. Il mio cognome diventa così Chiarastri, che è quanto di più cacofonico di possa sentire in Giappone, dopo il Pachinko.

 

In Africa, un particolare enzima non permette di pronunciare la P in modo esplosivo, ma di addolcirla con la B, così quando si vola di notte in Africa nera si sentono le stazioni radio che parlano tra di loro con questi buffi accenti... ammesso che si riesca a filtrare i rumori di fondo delle radio che rendono incomprensibile qualsiasi messaggio ad un orecchio non allenato.

 

Gli arabi parlano inglese alla velocità con cui parlano arabo, quindi fanno il codice fiscale dell’inglese. La sola cosa che si capisce ad un primo ascolto è lo zero, che pronunciano come Mourinho: “sziru”.

 

Una volta, un controllore di volo di Tripoli, dopo il nostro atterraggio ci chiese un qualcosa in inglese come “Registration mark, people on board” (come si chiama l’aereo e quanti occupanti ha). Venne fuori una cosa del tipo: “Rgstrascionmrk, piplonbrd”, seguito da un misterioso “rrvdc”. Eravamo in tre dentro il cockpit, cercando di decodificare questa parola inglese sconosciuta, quando uno dei tre ebbe la geniale intuizione: “Ci ha detto arrivederci”. Cautamente, ripetemmo, scandendolo lentamente: “Arrivederci”. E lui: “rrrvdc”: avevamo indovinato.

 

Infine, c’è l’inglese parlato dagli anglofoni: inglesi, scozzesi, irlandesi, canadesi, americani, australiani, neo-zelandesi. Una variazione sul tema che rende ardua la comunanza di linguaggio. Provate a guardare un film come Crocodile Dundee per vedere se quell’inglese corrisponde alla pronuncia di “Lesson number one: the pen is on the table”.

 

Un po’ come se una persona che parli il dialetto bergamasco ne incontrasse una che parli il calabrese stretto... insomma, l’italiano in mezzo ci sarà pure, ma è difficile scovarlo. E infine, crepi l’avarizia, il brucculino, cioè l’inglese misto all’italiano della comunità italiana di New York, con cui puoi tranquillamente chiedere: “che ora is it?”.

 

Insomma, Totò e Peppino non c’erano andati tanto lontani con il “noio vulevon savuar”.