La stanza di fronte

Scritto da Antonio Chialastri

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Tutti sanno che i naviganti, di fronte ad una novità, si lamentano. Anche se si mangia malissimo, quando viene proposta una novità tendente a migliorare la qualità del pasto troveranno sempre il punto di appiglio per lamentarsi.

È una questione di principio e probabilmente una strategia di sopravvivenza. Anch’io ho notato che qualsiasi variazione è sempre per il peggio, con il nobile fine di ridurre i costi. Poi i costi rimangono invariati, ma la condizione effettivamente peggiora. E dato che al peggio non c’è mai fine, cerco di trovare del buono in ogni occasione di cambiamento: dopo tutto, una volta toccato il fondo, si può sempre cominciare a scavare.

Anche gli alberghi sono sottoposti alla stessa dinamica. In una città ci si abitua ad andare sempre negli stessi luoghi. L’albergo diventa l’epicentro dell’attività extra-lavorativa, dove ognuno si trova gli hobbies, come la palestra, i negozi per fare shopping, un cinema, l’amante e così via. Quando cambia l’albergo, ho notato una tendenza endemica al lamento; a prescindere, come diceva Totò.

All’interno del nomadismo lavorativo, caratterizzato da un ambiente dove tutto cambia per definizione, è come se si cercasse un ancoraggio, con la sedimentazione di abitudini che possono sembrare delle fisime, ma che ad una riflessione più attenta hanno un loro perché. Io stesso, nel corso della mia carriera mi sono trovato a ritornare in albergo e chiedere la chiave della camera sbagliata, solo perché la sera prima avevo dormito nella 316... di un altro albergo.

Oppure mi è capitato di entrare nella camera sbagliata confondendo la 2212 con la 2122, in un grattacielo ad Osaka. Un po’ il fuso orario, un po’ qualche neurone bruciato dalla stanchezza, un po’ la distrazione cronica che mi affligge dalla nascita, ma sono entrato in una stanza che aveva la porta accostata. Era semplicemente appoggiata al fermo di sicurezza che di solito si mette per scrutare chi è alla porta senza farlo entrare. Non so a che serva un tale dispositivo di sicurezza in un albergo a quattro o cinque stelle, che ha il personale della security al pian terreno, ma ormai le hanno fatte così.

Piuttosto, in Giappone ho scoperto in quell’occasione che le porte, soprattutto nei piani alti non vengono quasi mai chiuse, ma soltanto accostatate a questo fermo. La ragione è di pura sopravvivenza. In caso di terremoto, che in Giappone è un evento ordinario, le porte si svergolano, e non c’è modo di aprirle. Il malcapitato ospite potrebbe rimanere intrappolato così a duecento metri dal suolo. E di uscire dal balcone non se ne parla proprio.

Insomma, la prima cosa che ho pensato, vedendo la porta accostata, è stata: “Che distratto che sono, ho dimenticato la porta aperta”. Quando sono entrato dentro, da uno stretto corridoio ho notato una valigia disfatta, ricordando però di aver stranamente lasciato un ordine insolito, vale a dire i vestiti nell’armadio e le valigie chiuse. Arrivato in prossimità del letto, nascosto dalla parete del bagno, ho notato anche un giapponese in pigiama, appoggiato allo schienale del letto, intento a leggere indefesso il giornale sotto le coperte. Sono rimasto impalato a guardarlo per buoni cinque secondi, mentre lui, ha abbassato il giornale, fissandomi e mormorando “Hathoo”.

Non so cosa significhi in giapponese quell’espressione. Dalla mia faccia si capiva benissimo che volevo dire: “Ma che ci fai tu, nel mio letto?”. Dalla sua faccia, accompagnata dall’hathoo, si percepiva una domanda del tipo: “Sei un matto che ha sbagliato stanza, oppure sei venuto per controllare il minibar?”.

Ricollegando velocemente gli indizi (porta aperta, valigia disfatta, giapponese nel letto, hathoo) mi sono sentito fuori posto, abbozzando un inchino e proferendo "Hiundemai", altra espressione di cui ignoro il significato, ma che per lui ha voluto dire: “Mi scusi, le sembrerò un coglione, ma è solo il fuso orario”. Insomma, una situazione che potrebbe benissimo fare la sua figura nel teatro dell’assurdo.

Non per niente, mi è capitato anche il contrario. Stavo dentro una camera di albergo a Genova, intento a scrivere il libro sullo Human Factor quando sento armeggiare alla serratura della mia porta. Dato che le pareti degli alberghi sono molto sottili, ho dapprima pensato che stessero tentando di aprire la porta accanto. Poi, di fronte all’insistenza, mi sono vestito e sono andato ad aprire.

Appena ho aperto la porta, una signora di una settantina d’anni è entrata baldanzosa dentro la mia camera, scansandomi letteralmente al grido di: “Oh, finalmente”. Ho fatto la faccia da giapponese, mormorando: “Signora, ma dove sta andando?”. E lei serafica: “Ah, non è questa la 703?”. “No che non è la 703; è la stanza di fronte”. E lei sempre più soave: “Ah, ecco perché la chiave non apriva!”.

Insomma, non le era venuto il dubbio che se una chiave non apre non è quella la camera giusta. Non le si è accesa una lampadina nemmeno quando qualcuno ha aperto, da dentro, la stanza che nei suoi piani doveva essere la sua. Semplicemente, mi ha spostato dicendo “Finalmente!”.

...e a Genova non c’è fuso orario... Hathoo...

antonio.chialastri(at)manualedivolo.it

(24 dicembre 2011)