Italiano all'estero

Scritto da Antonio Chialastri

Stampa

Uno dei vantaggi incontestabili dei viaggi è che essi aprono la mente. L’osservazione del modo di vita degli altri esseri umani con passaporto diversamente italiano ci apre una finestra di opportunità, di possibilità di cambiamento per il meglio, che rappresenta un patrimonio per chi viaggia.

Ovviamente, chi viaggia è al tempo stesso testimone di modi di vita alternativi e rappresentante del proprio Paese nel mondo, un ambasciatore inconsapevole che porta su di sé tutte le qualità e i difetti del proprio popolo. Quindi, è oggetto involontario anche dei pre-giudizi su di noi, che vanno dall’essere degli amanti sopraffini a quello di essere corrotti e infidi.

Un’altra cosa nota nel mondo è che in Italia abbiamo un’incapacità atavica a lavorare in gruppo: una persona è un fenomeno, due fanno casino, tre è associazione mafiosa. Questo è quello che mediamente pensavano di noi in Europa fino a poco tempo fa. Poi è arrivato Monti e l’italiano si è riscattato agli occhi del mondo per questa immagine di sobrietà, di quieta intraprendenza, di educazione. Ad esempio, Monti non parla ad alta voce, caratteristica indelebilmente associata all’italiano medio... e anche a qualche Primo Ministro durante le rare visite in Inghilterra.

In realtà, Monti sembra un po’ l’italiano in gamba, che ha studiato ma che è dovuto emigrare perché a casa non trovava lavoro, chiuso da una massa di raccomandati e figli di papà. Non a caso, il nostro Primo Ministro è diventato una celebrità prima all’estero, quando ha ricoperto la carica di commissario alla concorrenza dell’Unione Europea, e poi in Italia, come italiano che ha ricoperto con successo la carica di commissario europeo a Bruxelles.

Chi ha lavorato fuori sa che all’estero c’è una certa tendenza a lavorare in gruppo, a condividere le conoscenze, a pianificare il lavoro, a cercare attivamente la critica costruttiva. In questo modo, delle multinazionali di Paesi grandi come un condominio di Napoli possono vantare profitti costanti negli anni.

In Italia, raramente si trova un simile modo di lavorare e questo più per una questione antropologica che per un difetto del sistema Paese. L’italiano medio, se sa una cosa, preferisce tenerla per sé; se non la sa, preferisce nascondere la propria ignoranza. Se poi è qualcun altro a saperla, cerca attivamente di escluderlo dal gruppo, con la forza (prima opzione) o con la calunnia (seconda opzione) o con il trasferimento (terza opzione). Non a caso, Machiavelli, che di italiani se ne intendeva, coniò l’aforisma: “Vuoi farti dei nemici? Prova a cambiare qualcosa”. Sembra quasi che ci sia in questo Paese un complesso di inferiorità che impedisce di concorrere lealmente con gli altri.

Anche lo sport nazionale, il calcio, viene concepito come un’aberrazione del concetto sportivo, piegandosi alle esigenze di vittoria, anche sleale, se necessario. Per gli inglesi il football viene visto come sport, cioè entrare in campo pronti a dare il massimo, giocando con lealtà, rispettando l’avversario, uscendo dal campo con la maglia sudata, contenti se si è riusciti a dare il massimo. Per l’italiano il football è game, cioè gioco in cui vale tutto pur di arrivare alla vittoria.

Allora si butta per terra in area di rigore ed ha anche la faccia tosta di lamentarsi se il rigore non viene concesso, sapendo che non c’era. Oppure, sputa, tira la maglia, fa lo sgambetto quando è sicuro che l’arbitro è di spalle. Se vede un pallone che entra di mezzo metro dentro la propria porta, si guarda bene dall’avvisare l’arbitro dell’evento. Anzi, si vanta pure davanti ai microfoni della propria scaltrezza, perché noi mica aspiriamo a diventare santi. Noi siamo sportivi fino ad un certo punto, ma poi conta il risultato, non come ci sei arrivato.

Ecco, con questa mentalità, l’italiano si è incaprettato da solo, facendo fallire aziende di levatura nazionale, disintegrando la fiducia nelle istituzioni, nei concorsi pubblici, nella possibilità di accedere a qualche carica per via meritocratica. Non solo, lo Stato stesso è arrivato sull’orlo del fallimento, seguendo la logica del “Ti frego prima io, prima che tu freghi me”.

In questo sistema, è ozioso chiedersi se sia nato prima l’uovo (l’italiano cialtrone che bara e non rispetta le regole) oppure la gallina (un sistema perverso che ti obbliga a fare così prima che qualcuno faccia lo stesso). In sintesi, l’italiano non paga le tasse perché sono troppo alte, oppure le tasse sono troppo alte perché l'italiano non le paga?

Mi è capitato di collaborare ad alcuni progetti europei e confrontarmi quindi con persone di varia estrazione culturale. Il clima di fiducia iniziale tende a mettere le persone a proprio agio, richiedendo una prestazione determinata a priori. L’organizzazione, così, punta a mettere le persone nel modo migliore per lavorare.

Ho vissuto sulla mia pelle quello che significa badgeless society, cioè quella società in cui non conta il pennacchio (il badge aziendale sul bavero della giacca), ma la credibilità che hai acquisito con le tue competenze. Persone con un curriculum lungo due chilometri, che ti si rivolgono con la massima educazione, cercando la collaborazione e incentivando la critica, rappresentano una boccata di ossigeno che serve parecchio, una volta tornati nel nostro asfittico Paese.

Insomma, l’Italia è entrata in Europa con molto entusiasmo, forse perché nessuno aveva idea di come si vive e si lavora in Europa. Da trent’anni a questa parte, ho viaggiato in lungo e largo per il Vecchio Continente. Non è oro tutto ciò che riluce, ma ci sono grandi opportunità di modificare il nostro stile di vita, che ogni giorno di più mostra di non essere sostenibile nel medio-lungo periodo.

Soprattutto, faccio sempre più fatica a dover difendere il nostro sistema di vita quando mi confronto con persone nordeuropee e americane... anche perché mica l’ho inventato io, questo sistema.

(25 agosto 2012)