Master after God - II

Scritto da Antonio Chialastri

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Un incidente nato dieci anni prima – parte seconda
(segue) Non è un caso se alla Marina (da cui gli aviatori hanno ereditato il codice della navigazione che sancisce doveri e prerogative del Comandante) risale il detto “Dopo Dio, il Comandante”.


E si badi bene, che questo detto vige non solo nei paesi latini, ma anche in quelli anglosassoni: Master after God. Si intendeva con questa frase il fatto che dovendo partire per luoghi lontani, dove non era possibile avere un contatto con l’armatore, questi si fidava talmente tanto che sopra il Comandante non c’era più il suo datore di lavoro, ma Dio.

Oggi, con la presenza pervasiva della tecnologia, con la possibilità di restare in contatto in ogni posto del mondo, con le radio satellitari, l’ACARS, i telefoni, tra il Comandante e Dio è tornato l’armatore e con ciò se ne è andata anche parte dell’autonomia di cui questa figura godeva in passato. Forse, l’erosione dell’autonomia è diventata fin troppo spinta, tanto che oggi il controllo è diventato asfissiante. Si controllano non solo le decisioni, ma anche i parametri di volo in tempo reale, innescando una sindrome da “Grande Fratello” che costantemente controlla i comportamenti e vigila sull’operato dei piloti.

Così, da professione caratterizzata dall’idea della libertà, dell’autonomia, della sfida verso gli imprevisti che un ambiente molto complesso porta sempre con sè si è via via ridotta ad attività quasi etero-diretta, costretta tra una miriade di norme, di regolamenti, di codici disciplinari e soprattutto sotto stretto controllo dell’armatore.

I piloti erano un gruppo professionale rispettato, quand’anche invidiato, per molti versi inaccessibile, proprio perché la particolarità della professione non permetteva di avere un contraddittorio su tematiche prettamente operative. Pian piano gli ingegneri, i manager, gli uffici commerciali delle compagnie si sono appropriati di spazi di autonomia imponendo delle scelte che forse non sono state comprese nei loro risvolti e così da una ventina di anni il pilota è visto come un dipendente (un po’ troppo viziato) ad alto reddito.

Complici anche le ripetute crisi economiche che hanno portato tutta l’industria dell’aviazione commerciale ad aggredire i costi vi è stata una compressione salariale, una stretta sui codici disciplinari, una verticalizzazione top-down dei rapporti umani e delle funzioni gerarchiche, dove in piloti sono stati relegati in posizione subalterna.

Così, da persona che viveva all’interno di un’organizzazione, godendo di autonomia, prestigio e reddito, il pilota si è progressivamente ritirato in una riserva protetta dove è visto come un dipendente, subordinato a livello di organigramma aziendale, che ancora gode di un alto reddito, ma per il quale ci si sta attrezzando.

Questa scomparsa dei piloti dalle posizioni apicali non riguarda solo le compagnie aeree. Anche nelle istituzioni (Commissione Europea, Parlamento italiano, Ministeri, Enti pubblici, Agenzie investigative) i piloti sono figure di secondo piano, dei tecnici al servizio di volontà politiche che prescindono spesso da considerazioni di ordine professionale.

La stessa progettazione degli strumenti di bordo e la concezione dell’automazione ancora oggi fatica a concepire i piloti come voce autorevole con la quale occorre interagire per capire come l’utente utilizzerà i sistemi di bordo. Non a caso, gli incidenti dovuti ad una interazione fallace tra uomo e macchina sono tornati prepotentemente alla ribalta dopo gli anni ’90, quando vi è stata una vera e propria “rivoluzione tecnologica”.

Nelle innovazioni portate soprattutto da Airbus, basate su fondamenta teoriche più che discutibili, la comunità professionale dei piloti ha visto più una sfida che una minaccia. Dopo qualche anno, constatando che l’automazione a bordo era in alcuni frangenti incomprensibile, portando alla perdita di situation awareness e quindi aumentando il fattore di rischio (soprattutto nelle situazioni critiche), i piloti si trovano nella situazione in cui tornare indietro non si può, poiché i costi di retro-fit (cioè modificare le macchine che sono già in attività) sarebbero esorbitanti.

Una comunità professionale che non tuteli la propria professione, attraverso studi, dibattiti, incontri, riviste, scambi istituzionalizzati, è destinata a soccombere di fronte a sistemi di potere strutturati ed efficienti. Non è un caso se la figura dell’ingegnere oggi domina la scena delle compagnie aeree, delle istituzioni e degli enti regolatori. (continua)

(13 febbraio 2017)