Gli autisti

Scritto da Antonio Chialastri

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Il viaggio in macchina fino all’aeroporto è l’inizio vero e proprio della giornata di volo. Il primo impatto, il mattino da cui si vede il buongiorno. Una volta, anche a Roma, c'era l'autista che ti veniva a prendere sotto casa: ora non è più così.

Tuttavia l'usanza sopravvive, ovviamente, in caso di sosta su aeroporti periferici. E devo dire che raramente ho visto una estensione così eterogenea di persone fare lo stesso lavoro.

Solitamente, per fare un certo lavoro bisogna anche avere il carattere adatto. Una persona abitudinaria, che teme i cambiamenti, che ama stare a casa, circondato dalle cose care e dalle stesse amicizie, forse è bene che non faccia il navigante. Una persona come me, che ha paura del sangue, sarebbe auspicabile che non faccia il chirurgo.

Tra gli autisti degli automezzi addetti al trasporto degli equipaggi (taxi o pulmini che siano), invece, c’è di tutto. Da quello laureato, che parla quattro lingue, al coatto che parla a malapena l’italiano. Persone da cui ho imparato un sacco di cose, insieme ad altre cui non ho mai parlato.

L’impressione, visti da fuori, è che siano una massa di ragazzini un po’ cresciuti, con la macchina che invece dei pedali ha un motore vero. Invece, parlandoci viene fuori un’umanità a volte insospettabile; altre volte, al contrario, ti rendi conto di come si può buttare una vita dietro a una squadra di calcio: ce ne sono alcuni che tutto il giorno hanno la radio sintonizzata sull’emittente degli ultrà della squadra del cuore: 24 ore su 24, sette giorni alla settimana, 365 giorni all’anno. Così per una vita.

Ho imparato a mettere adeguati filtri per non ascoltare qualcosa che sta tra il surreale, il comico e l’inquietante. Tra di loro fanno delle battute che io ricordo distintamente di avere già sentito in terza media.

Un piacere dello spirito invece è fare il tragitto fino in aeroporto con chi costruisce chitarre e ti cita tutti i chitarristi blues e rock degli ultimi quarant’anni, oppure quello che ti sa dire come è strutturato il servizio nazionale sanitario con moglie pluri-laureata. Uno viene dal Centro America, molto intelligente, e ha scelto di comprare l’auto di lusso per trasporto per stare a contatto con il pubblico, pur avendo una laurea in economia.

Anche due tassisti mi hanno impressionato in questi anni: uno prima faceva lo sminatore nel Golfo Persico, dove aveva perso perso il fratello. Si guadagnava da vivere disinnescando le migliaia di mine (italiane) disseminate durante la guerra tra Iran e Iraq. Terminato il lavoro è tornato in Italia, ha comprato un tassì e istruisce i clienti nel caso vogliano racimolare in fretta dei soldi.

Un altro mi colpì per la saggezza quasi indiana. In poco meno di quaranta minuti mi ha parlato di filosofia del traffico. Parlava del traffico in maniera profonda. Tra l’altro, pur non avendo studiato filosofia, trattava argomenti di primaria rilevanza filosofica e non banalizzava mai.

Il tassista, quello senza navigatore satellitare, è immerso nel traffico, non ha una visione dall’alto, a differenza del pilota che vede tutto sotto di sé. Deve astrarre un percorso tra i tanti possibili e confrontarlo in tempo reale con le alternative disponibili e le situazioni improvvise, senza sapere cosa troverà al prossimo incrocio.

Ne usciva un discorso esistenziale che avrei dovuto appuntare, ma come sempre, in questi anni di corsa, ho sempre detto “poi”.

Non importano i dettagli, ma un tassista mi aveva dato materiale per pensare più a lungo di tanti professori di filosofia all’Università.

(5 gennaio 2011)