Fatica e incidenti

Scritto da Antonio Chialastri

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Secondo il National Transport Safety Board statunitense, che non è esattamente l'ultimo arrivato in tema di sicurezza aerea, 80 incidenti aerei su 100 sono riconducibili al fattore umano, e di questi 21 (il 16% del totale) sono imputabili a un livello di affaticamento inaccettabile.

Per valutare correttamente queste considerazioni si deve partire da un dato di fatto: la fatica non può emergere dall’autopsia dei cadaveri di un incidente, sia che si tratti di un incidente stradale, ferroviario, marittimo o aeronautico.

Come disse un deputato americano, che ebbe l’onere di stilare un rapporto per una commissione di inchiesta su alcuni incidenti in cui la stanchezza dei piloti veniva portata come concausa: “non è possibile trovare la fatica in una salma”.

Anche per questi motivi, è solo una decina di anni fa che gli investigatori hanno cominciato a considerare la fatica come “causa probabile” o “fattore causale”d’incidenti. Attualmente, si ritiene che almeno 4 incidenti gravi debbano registrare la fatica come fattore causale primario.

1993, 18 agosto: un McDonnell Douglas DC-8-61 cargo della compagnia American International Airways si schianta durante un avvicinamento diurno sull'aeroporto di Guantanamo Bay, a Cuba (ne riparleremo in dettaglio...).

1994, 21 dicembre: un Boeing B737-200F Air Algerie subisce la stessa sorte durante un avvicinamento radar a Coventry (Gran Bretagna) condotto in condizioni di bassa visibilità.

1997, 6 agosto: un Boeing B747-300 della Korean Airlines impatta la collina di Nimits Hill (Guam) nel corso di un avvicinamento notturno.

1999, 1° giugno: un Boeing MD82 dell’American Airlines si distrugge uscendo di pista a Little Rock (USA) nel tentativo di atterrare durante un violento temporale.

Appurato che la fatica incide notevolmente sulle prestazioni umane, occorre ricordare, in via preliminare, che quasi tutte le normative, sia statali che aziendali, invitano il pilota a non intraprendere il servizio di volo qualora ritenga di non trovarsi in stato di perfetta efficienza psico-fisica.

Dagli incidenti che abbiamo appena menzionato, risulta evidente che vi sono dei motivi per i quali questo giusto invito è stato disatteso. Scartiamo a priori l’eventualità che i piloti siano masochisti o abbiano tendenze suicide, come risulta anche dall’analisi del curriculum di ogni pilota coinvolto in questi incidenti (che anzi ne rivela l’alta professionalità).

Come spiegare allora l’accettazione, da parte loro, di effettuare tempi di servizio così alti tali da diminuire le proprie capacità di giudizio e di pilotaggio?

Come ricordato, la fatica non è uno stato ON-OFF, ma una graduale sensazione che tra l’altro non può essere ragionevolmente prevista con ore di anticipo. Se ad esempio un pilota è leggermente stanco prima di iniziare un volo di lungo raggio che dura anche quindici ore, come fa a sapere quali saranno le proprie condizioni alla fine del volo, quando dovrà fornire la sua massima prestazione durante l’atterraggio?

Una persona curiosa si potrebbe quindi chiedere: esistono dei metodi per misurare la fatica?

Attualmente, esistono quattro metodologie per misurare la fatica: quella basata su misure fisiologiche; quella fondata su misure comportamentali; quella imperniata su misure auto-valutative; e quella basata sulla misurazione delle prestazioni.

antonio.chialastri(at)manualedivolo.it

(8 agosto 2012)