Aquaplaning

Scritto da Franco Di Antonio

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Fenomeno noto a tutti grazie alle automobili, l'aquaplaning si configura in campo aeronautico come uno dei rischi presenti negli atterraggi sotto la pioggia, e del quale abbiamo più volte parlato, anche ultimamente nell'articolo Dove vanno a morire gli aerei.

Il vocabolo viene chiaramente dall'inglese, cosa che si può intuire per la mancanza della c davanti alla q. E' un vocabolo composto dal termine aqua derivante direttamente dal latino e dal significato lapalissiano, e dall'inglese plane, cioè planare, sfruttare l'idrodinamica come mezzo di sostentamento. Entrato nella terminologia automobilistica all'inizio del '900, il vocabolo indica un fenomeno che consiste nella perdita di contatto dello pneumatico con la superficie stradale.

Le condizioni di aquaplaning si realizzano quando l'acqua presente sulla superficie stradale ha uno spessore uguale o superiore alla profondità delle scanalature del battistrada, con la conseguente difficoltà di far scorrere via l'acqua incontrata durante la corsa, fino ad arrivare alla condizione in cui un velo di liquido s’interpone tra suolo e pneumatico e, per la nota incomprimibilità dell'acqua, costituisce una lamina inscalfibile che non produce più attrito, ma addirittura lubrifica il contatto tra ruota e superficie: in questa condizione diviene a volte impossibile rallentare la corsa del mezzo.

Come succede con quasi tutti i fenomeni negativi, riguardanti il mondo aeronautico, esistono le difese, sia tecnologiche sia procedurali.

L'equipaggiamento tecnologico che aiuta ad evitare il fenomeno dell'aquaplaning, si chiama antiskid (l'onnipresente inglese, in questo caso sta per antiscivolamento, vale a dire un dispositivo che tende ad ottenere il massimo effetto frenante evitando il bloccaggio delle ruote), ma naturalmente esistono molti altri accorgimenti automatici o manuali che contribuiscono a ridurre i rischi di scivolamento sulla pista (autospoiler al contatto col suolo, autobrakes, reverse, ecc.).

I rischi sussistono sia in decollo sia in atterraggio perché in entrambe le condizioni ci può essere la necessità di ridurre la corsa dell'aereo in spazi limitati.

E' una regola ferrea dell'aviazione quella di usare i metodi preventivi per evitare i rischi, e per questo tipo di rischi esistono le procedure cosiddette SSW, in gergo denominate “procedure per piste contaminate”. La contaminazione ovviamente non è riferita a quella ambientale ma a quella della purezza della superficie della pista d’atterraggio e decollo.

La pista perfetta è quella asciutta, la cui superficie non presenta materiali potenzialmente in grado di cambiarne le caratteristiche d’attrito (polveri, sabbie, ceneri vulcaniche, acqua, fanghiglia, neve, ghiaccio, ecc.).

La procedura che si applica più spesso è quella detta come dicevamo SSW, cioè Snow Slush Water. Prima del volo e prima dell'atterraggio i piloti analizzano i bollettini meteo, dove si trovano indicate in codice le condizioni della pista. Nel codice viene indicata l'ora e la data della rilevazione, ovviamente l'aeroporto, la pista o tutte le piste, poi il tipo di deposito contaminante, la percentuale di pista coperta, lo spessore del deposito. E' una serie di numeri e lettere impossibile da decifrare per i non addetti, ma non basta: il codice di contaminazione prosegue con le condizioni di frenata.

Nei bollettini si riporta il coefficiente d’attrito, se l'aeroporto è equipaggiato con i sistemi di rilevazione, oppure una valutazione d’azione frenante basata sui riporti dei piloti in atterraggio. L'azione frenante per così dire sintetica, basata su una valutazione intuitiva e non su coefficienti misurati tecnologicamente, è indicata come povera, se l'azione frenante è in sostanza fuori dei limiti di sicurezza, poi ci sono i livelli medio/povero, medio, medio/buono e finalmente buono per le condizioni di frenata ottimale. Le osservazioni e le misurazioni sono fatte ad intervalli di routine, ma solo quando ne ricorre la necessità.

In ogni caso le condizioni della pista sono comunicate a richiesta dei piloti tramite i canali di comunicazione usuali. Hanno importanza ovviamente anche i dati di pendenza di pista, il vento e la quota dell’aeroporto.

A questo punto i piloti devono confrontare le condizioni esistenti con le prestazioni dell'aereo e con le norme di compagnia: se le tabelle dell'aereo, analizzate con l'inserimento delle condizioni attuali, danno come risultato uno spazio d’arresto che ragionevolmente può essere valutato entro i limiti di pista disponibile, i piloti decideranno di tentare l'atterraggio, altrimenti procederanno ad un aeroporto più adatto.

Per garantire la massima efficacia nell’uso dei sistemi frenanti, dopo il contatto con la pista, i piloti ricorreranno anche ad applicare tutti gli accorgimenti professionali e d’uso dell’aereo, previsti per questi casi (massimo flap, minima velocità, toccata sul punto di ottimo contatto ecc.).

Insomma, in linea generale l'aquaplaning è un nemico ben conosciuto e affrontato con la necessaria circospezione, il che porta alla considerazione che su un milione di atterraggi in tutto il mondo in condizione SSW, il rischio che si possa incontrare un fenomeno di aquaplaning tale da non riuscire a fermare l'aereo entro gli spazi consentiti, può essere considerato trascurabile, sebbene ancora non nullo.

(30 luglio 2012)