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Piloti senza manico

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Dire che un pilota è un “manico” nell’espressione gergale italiana, soprattutto in ambito militare, indica un pilota molto abile. E' questo uno dei rari esempi dove il gergo italiano riesce ad essere più sintetico di quello anglosassone.

L’espressione lessicale italiana, più colloquiale e immediata di quelle usate di solito in inglese (hands-on instincts, pilot skills, flying skill, how to fly, manually flying, airmanship), deriva dal concetto di abilità nel manovrare la barra di comando di un aereo, la quale è sensibilmente somigliante ad un manico di scopa. Di qui, sintetizzando al massimo, l'espressione “manico”.

In cosa consiste quest’abilità? Si tratta essenzialmente, proprio per l’origine del termine, della sensibilità e della precisione con cui un pilota agisce sui comandi di volo ottenendo risultati d’eccellenza. L’abilità di pilotaggio però non si limita ai soli comandi, il pilota ha una capacità di adattamento all’ambiente a tre dimensioni molto spiccata, riuscendo sempre a posizionarsi correttamente in relazione ai tre assi di movimento, e interpretando in tempi ristretti le necessità di guida che richiede un aereo in una data situazione o frangente.

Si tratta in gran parte di doti innate, e questo è stato uno dei fattori che hanno reso l’accesso alla professione del pilota storicamente molto difficile. Altre doti si affinano con il tempo, come quella che è detta, sempre in gergo, “stare davanti al muso dell’aereo”. Con quest’espressione, equivalente dell'inglese fly 5 minutes ahead (alla lettera: vola 5 minuti davanti), si esemplifica la necessità continua di anticipare le situazioni che si incontreranno e quindi i controlli che un apparecchio richiede. Il contrario è inseguire l’aereo o “stare sulla coda”, che esemplifica la mancanza di attitudine a prevenire i comportamenti a volte complicati dei mezzi ai quali si è assegnati.

Negli ultimi venti anni sono arrivati nelle linee di volo delle compagnie aeree i mezzi con i comandi elettrici. L’uso di una massa di automatismi veramente enorme ha fatto pensare ai costruttori che le capacità di guida basica richieste ai piloti stessi non fossero più strettamente necessarie, quindi anche l’addestramento è cambiato semplificandosi, con lo scopo anche di allargare la platea di selezione dei candidati piloti. Il risultato purtroppo non è stato esattamente quello ipotizzato.

L’obiettivo di ridurre in ogni caso i costi, ha poi suggerito alle compagnie aeree di non occuparsi più delle fasi iniziali della formazione di un pilota, lasciando alla libera iniziativa dei candidati il compito di dotarsi delle licenze e delle esperienze necessarie. Questo fatto ha reso necessario un esborso finanziario rilevante da parte di chi desiderava intraprendere la carriera di pilota di linea, con il risultato che l’accesso alla professione si è ristretto ad un piccolo numero di persone in grado di pagarsi i brevetti.

Anziché allargarsi, la platea di selezione si è dunque rimpicciolita e per giunta con una richiesta di abilità di pilotaggio, grazie ai sistemi automatici, sensibilmente inferiore rispetto al passato. In venti anni un’intera generazione di piloti “allevati” secondo questi criteri è approdata nelle compagnie aeree ed oggi i primi di loro hanno la responsabilità del comando. I vecchi piloti d’origine militare, estremizzando il concetto, sostengono che oggi non ci sono più “aquile” alla condotta degli aerei ma semplici “capponi”.

Questa affermazione, che potrebbe suonare come una semplice chiacchiera da bar, è tuttavia arrivata ad interessare la massima autorità aeronautica americana, la FAA. Questa, con riferimento al fenomeno del loss of control (ne abbiamo parlato in diversi articoli), mette sotto indagine proprio i sistemi di addestramento che non s’indirizzano a migliorare le capacità di condotta dei piloti in ambiente altamente automatizzato.

La FAA ha iniziato a studiare il rapporto tra automatismi e piloti (The interface between flightcrews and modern flight deck systems) già nel 1996, cercando di capire dai rapporti sugli incidenti com’è possibile che i piloti chiamati ad affrontare i malfunzionamenti degli aerei altamente computerizzati falliscano nell’intervenire per risolvere alcuni tipi di emergenze. Oggi la bozza di ricerca che la FAA sta completando è arrivata al grande pubblico, con diverse interpretazioni.

Una prima uscita c’è stata lo scorso autunno (FAA: Operational use of flight path management systems, in un convegno della Flight Safety Foundation a Milano), poi in febbraio con un articolo di Flight International. Dai primi di settembre si è tornati spesso sull’argomento con i lanci, sempre più preoccupati, delle più importanti reti d’informazioni tra le quali l’Associated Press. Molto citato il punto di vista di Rory Kay, copresidente del comitato FAA sull'addestramento dei piloti.

Il rilascio definitivo dello studio FAA allo US Performance-Based Operations Aviation Rulemaking Committee e al Commercial Aviation Safety Team è atteso per la fine dell’anno: vedremo se l’effetto sarà quello sperato.

In pratica le questioni si accentrano sull’eccesso di automatismi e sulla scarsa dedizione dei programmi di addestramento a migliorare il rapporto tra automatismi e piloti, fino a coinvolgere la struttura ergonomica delle cabine di comando. E mentre pare difficile ipotizzare un uso decrescente dei sistemi automatici, è altamente auspicabile uno sviluppo adeguato dei programmi di addestramento ai sistemi moderni.

In un’intervista l’eroe dell’ammaraggio nell’Hudson, il comandante Chesley “Sully” Sullenberger, dichiara al riguardo: “Se ci concentriamo solo sui piloti rischiamo di ignorare un fattore importante, vale a dire come i piloti e gli automatismi lavorano insieme”.

(16 ottobre 2011)

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