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Si fa presto a dire arabo

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Molti anni fa, durante un volo per Casablanca, un vecchio comandante, rivolgendosi al giovane copilota che ero, sentenziò: “Ragazzo, ricorda: arabo uguale problema”. Tra i nostri passeggeri, c'era una persona respinta dalle autorità al suo paese di provenienza.


Ovviamente, dava segni di insofferenza, come qualsiasi altra persona che viene rimpatriata con la scorta di poliziotti. Con il tempo ho imparato che questo nervosismo dipende soprattutto dal tipo di trattamento che riceveranno una volta tornati a casa. Infatti, una volta atterrati il comportamento del passeggero cambiò radicalmente, diventando addirittura remissivo alla vista dei poliziotti marocchini.

Visitando molti paesi arabi, dal Marocco alla Tunisia, dall’Algeria alla Libia, dal Libano all’Egitto, dalla Giordania alla Siria, mi sono reso conto invece che dire arabo equivale a dire europeo: vuol dire tutto e vuol dire niente.

Tra l’altro, molte persone in Italia confondono arabo e musulmano, come se fossero sinonimi. Non è così e basterebbe apostrofare un iraniano, che è musulmano, con l’appellativo di arabo per vedere l’effetto che fa. I persiani ci tengono ad essere distinti dagli arabi.

Per un musulmano che non è arabo, c’è un arabo che non è musulmano, come i palestinesi fino a venti anni fa. Generalmente, la popolazione palestinese, nomade per indole e per necessità, ha cercato di stabilizzarsi in un paese che li accogliesse, permettendole di creare uno Stato nello Stato. Però i palestinesi, fino a pochi anni fa, rivendicavano delle esigenze di tipo politico, cioè volevano una terra per istituire il loro Stato.

Ovviamente, tra la popolazione c’era chi professava una fede nell’Islam, ma la religione non era il fattore aggregante e motivante della lotta che vediamo oggi. Negli ultimi anni, invece, c’è stato il fenomeno della islamizzazione della Palestina, che non ha fatto altro che esacerbare il conflitto con Israele, altro Stato che si trova nell’area mediorientale, senza condividere né etnia, né cultura né religione. Gli abitanti dello stato ebraico provengono da molte parti del mondo, tanto da renderla terra di popolamento, un po' come l’America dopo la sua scoperta.

Per chi invece si è radicato nel territorio, pare che ci sia un collegamento tra la conformazione fisica dell’ambiente, la conseguente struttura sociale e le caratteristiche della popolazione. Insomma, Montesquieu non era proprio un fesso.

Ad esempio, in Marocco le città sono cinte spesso da mura alte, poiché erano delle roccaforti dei guerrieri che poi attraversavano lo stretto di Gibilterra per andare a conquistare la Spagna. Le radici sono guerriere e da qui si capisce anche l’indole fiera, diversamente dai giordani e dagli egiziani che invece hanno vissuto di pastorizia negli ultimi duemila anni e che mostrano un carattere più mansueto.

I libanesi possono essere chiamati a malapena arabi, perché la convivenza con confessioni religiose diverse ha influenzato il modo di vita. Gli ex-fenici sono un popolo di mercanti, votato ai viaggi (i libanesi sono un po' gli italiani dei paesi arabi; li trovi dappertutto nel mondo). Il modo di vita è ampiamente secolarizzato, multietnico, cosmopolita, con parti del paese però sotto il controllo di milizie che ancora esercitano un’influenza sulla politica nazionale.

Insomma, la cosa in comune tra tutti questi paesi è la lingua araba, difficile da capire e ancora più difficile da leggere, poiché nell’arabo classico si scrivono solo le consonanti, omettendo le vocali. Un po' come capire il nome delle persone derivandolo dal codice fiscale.

In conclusione, la conoscenza dell’altro, delle sue radici, ci aiuta molto a comprenderne i comportamenti, le inclinazioni, il potenziale di risorse che possono rappresentare, così come i pericoli che si possono annidare quando le relazioni tra comunità sono improntate su basi sbagliate.

Durante uno dei miei viaggi in Marocco, ospite di una mia amica, telefonai a casa di mia nonna, alla quale ero molto legato, per sapere se tutto fosse a posto. Mi rispose, come al solito, velocissimamente, perché non voleva che spendessi i soldi del telefono con chiamate dall’estero, aggiungendo: “Mi raccomando stai attento... hai visto quello che succede, da quelle parti”.

Era il periodo della prima guerra in Iraq ed io ero in Marocco. La rassicurai sul fatto che non c’era nessuna guerra in giro, ma lei imperterrita: “Lo sai come sono quelle parti lì”. Per lei, la fascia di mondo che va dalla Mauritania all’Afghanistan è “quelle parti lì”.

E di cognome mia nonna non faceva neanche Bush.

antonio.chialastri(at)manualedivolo.it

(17 ottobre 2012)

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