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Aliarabia

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E così alla fine, dopo una sequenza quasi infinita di "settimane decisive", di lettere in viaggio tra Dubai e Roma, di ultimatum e peniultimatum sparati a destra e a manca, la vicenda Alitalia è arrivata all'epilogo: i nuovi padroni sono gli arabi di Etihad.


Una soluzione giunta quando ormai la "nuova" Alitalia (come la chiameranno ora, "nuovissima"?) era già da molti mesi tecnicamente fallita, condotta allo sfacelo da una cordata di imprenditori che solo sei anni furono dipinti come il fior fiore dell'imprenditorialità italica.

Il temuto passaggio in mani straniere, all'epoca rappresentate da Air France, sarebbe in quel 2008 avvenuto sulla base di un'operazione le cui implicazioni finanziarie (in termini di capitali) e sociali (in termini di posti di lavoro persi) erano significativamente simili a quelle dell'operazione messa oggi in piedi da Etihad... peccato che nel frattempo siano trascorsi sei anni, che si siano bruciati migliaia di posti di lavoro, che la fetta di mercato presidiata da Alitalia si sia ulteriormente ridotta, e che l'avventura di AZ-CAI sia costata alle casse statali diversi milioni di euro.

Un prezzo un po' alto, e pagato per giunta dal contribuente, per salvaguardare un'italianità che a quanto pare oggi non interessa più a nessuno, anche se politici e sindacalisti cercano come loro solito di salvare la faccia affannandosi a ricordare che il socio arabo rimarrà sempre e comunque in minoranza, con il suo 49%. Il che sarebbe forse vero se l'altro 51% fosse detenuto da un solo partner, e non da una galassia di soggetti tenuti insieme prima dalla gratitudine politica nei confronti di Berlusconi (che li aveva reclutati garantendo loro altri benefici nei rispettivi campi di azione), e poi dalla preoccupazione di salvare almeno una parte del gruzzolo.

E in queste condizioni un socio, oltretutto dotato di una comprovata esperienza nel settore specifico, che entra col 49% del capitale fa il bello e il cattivo tempo, e quell'1% mancante alla maggioranza assoluta è solo una pietosa foglia di fico che permetterà alla Comunità Europea di fingere che il controllo resti in Europa.

In Europa, si badi bene, non in Italia come vorrebbe far credere il ministro Lupi, perché anche se qualcuno pare averlo dimenticato, sia pure molto diluita, una parte di capitale stimata intorno al 6,50% è ancora detenuta da Air France. Fate voi i conti di quello che resta in mano alle Poste e al poco che rimane dei "capitani coraggiosi" di berlusconiana memoria.

Nel frattempo qualcuno spieghi al ministro Lupi, con quella sua aria da secchioncello che ripete a macchinetta la lezione insegnatagli dal maestro, che la "compagnia di bandiera" in Italia non esiste più comunque da anni, e che da ora in poi si farà quello che i nuovi padroni riterranno più opportuno.

Tanto per cominciare, più lungo raggio a scapito del corto e del medio, come da anni (se non decenni) andavano chiedendo, inascoltate, le organizzazioni professionali dei piloti. E poi cargo, quell'attività cargo una volta fiorente in Alitalia, che era stata lasciata scelleratamente languire negli ultimi anni di gestione LAI, per poi essere completamente abbandonata dalla "cordata dei patrioti".

L'unica nota positiva è rappresentata dal fatto che la compagnia emiratina ha in questi ultimi anni ampiamente dimostrato di essere in possesso di quattro doti fondamentali per ritagliarsi una buona fetta di mercato: professionalità, lungimiranza, aggressività e capitali.

E questo, per quella che una volta era la nostra compagnia di bandiera, rappresenta la più solida delle garanzie di sopravvivenza... al rilancio, come dice Hogan (CEO di Etihad), si potrà cominciare a pensare dal 2015.

(10 agosto 2014)

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