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Dante a Bombay

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Bombay non è una città: è la rappresentazione fiabesca di quello che immaginiamo dell’aldilà. La Porta dell’India, sede di traffici marittimi, commerciali, politici, una delle perle dell’Impero britannico, è oggi l’unica cosa in grado di provocarmi la caduta della mascella dallo stupore.

L’unico cruccio che mi accompagna è il non poter riportare l’esperienza vissuta, perché supera di molto le mie capacità narrative; un compito arduo, che solo pochi eletti possono portare a termine.

Lo spettacolo vivente, che non dimenticherò per il resto dei miei giorni, lo rivivo spesso nella mente sotto forma di ricordi e sogni, ma farlo rivivere anche a chi non l’ha mai visto rasenta l’impossibilità. Ah, se solo avessi le parole, come fece Dante, che trovò il modo di descrivere quello che vide in sogno!

Noi italiani abbiamo avuto la fortuna di avere il più grande genio letterario dell’umanità a portata di mano e paradossalmente sono proprio i paesaggi come Bombay (che oggi si chiama Mumbai) fanno capire quale grandezza si celi dietro la Divina Commedia.

Dante avrebbe descritto perfettamente (in endecasillabi!) cosa aveva davanti agli occhi e avrebbe portato il lettore a rimirare tale meraviglia come se fosse cosa viva. Io posso solo ricordare che affittai un taxi per fare un giro di ricognizione e prendere confidenza con la città.

Vidi cose che si vedono tranquillamente durante una nottata dopo aver trangugiata una peperonata, con la differenza che nei sogni la mascella rimane incollata al suo posto. Cose straordinarie sono ad ogni angolo di strada, dagli odori ai colori, a fenomeni sociali che sono fuori dalla nostra concezione della realtà.

Ad esempio, vi sono posti, come il cimitero dei Parsi, dove sono erette le Torri del Silenzio, utilizzate per deporre il corpo del defunto su una costruzione molto alta, permettendo agli avvoltoi di mangiarne il cadavere. E c’è un quartiere chiamato “le gabbie”, che è l’equivalente di un quartiere a luci rosse, ma senza dare l’idea del supermercato del sesso come si nota in altre città. Nonostante queste cose che destano meraviglia, ci fu un’occasione che mi costrinse a pizzicarmi sulle guance per esclamare il più classico dei “sogno o son desto?”: “le vasche”.

Qui arrivano a frotte tutti coloro che vogliono lavare i panni in un luogo pubblico, utilizzando una serie di sostanze come la gomma, la cenere ed altri unguenti. Insomma, tutto tranne una lavanderia per come siamo abituati a concepirla da noi. Dire che il paesaggio è affascinante è dire una banalità. Infatti, farebbe la sua figura in un film sull’inferno dantesco, con i colori, le persone, l’attività frenetica che non hanno nulla di naturale, ma che, appunto, somigliano più al sogno che alla realtà.

L’ambiente, un immenso catino all’aperto, ad una quota leggermente inferiore al manto stradale, è caratterizzato da una continua variazione di grigio e nero, con lampi improvvisi di colori sgargianti, come solo l’India sa mostrare. È un peccato non poter descrivere il brulicare di gente che si muove rumorosamente gomito a gomito, con i denti bianchi che regolarmente segnalano la presenza di qualcuno vicino a te. Turbanti, tuniche, panni avvolti nelle fogge per noi più strane ed inusuali ondeggiano tra i vicoli di questo posto straripante di umanità.

Che peccato non poter descrivere l’assenza del senso di pericolo per essere immersi in un posto sconosciuto, proprio come Dante esprime la sua permanenza nei gironi infernali, che lo irretiscono e lo incuriosiscono allo stesso tempo. Proprio l’atmosfera da sogno ti fa addentrare nei meandri di questo budello come se fossi intangibile, come se fosse impossibile che ti accada qualcosa di spiacevole e il semplice riaprire gli occhi fosse garanzia di mandare via qualsiasi situazione pericolosa.

Anche Dante, ad un certo punto, dovette arrendersi, nell’ultimo canto del Paradiso, all’impossibilità di descrivere ciò che vedeva. La differenza è tutta lì; lui si è arreso di fronte a quella cosa che “move il Sole e l’altre stelle”, io di fronte alla lavanderia di Bombay.

C’è sempre un perché.

(16 giugno 2010)

 

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